di Giuseppe Ruiu
In quasi ogni paese della Sardegna vi è il ricordo della presenza di qualche fuorilegge locale che in un dato momento storico impose la sua autorità banditesca, rimasto impresso magari per audacia, temerarietà e sfrontatezza verso l'autorità regia, o peggio per tutte quelle declinazioni che la criminalità impone, come l'efferatezza e la spietatezza.
Anche Cargeghe, seppur borgo socialmente tranquillo in quasi tutto il corso della sua lunga storia, ebbe i suoi banditi. A metà del 1800, epoca alquanto turbolenta dal punto di vista socio-politico in tutta l'isola, dovuta alle condizioni di vita molto dure e precarie, ai fermenti politici dovuti all'oscurantismo sabaudo e alle frequenti epidemie come il colera, il paese ebbe ben tre fuorilegge datisi alla macchia dopo aver commesso i propri delitti.
Antonio Maria Derudas, Giovanni Maria Puzzone e Angelo Masala, furono coloro che la tradizione rese tristemente celebri. Tra essi colui che ebbe miglior vocazione criminale fu certamente il Derudas, vuoi anche per aver avuto come compagno di latitanza per circa due anni il celebre Giovanni Tolu di Florinas (fu il sodalizio più longevo per il Tolu) che alla fine lo tradì - per non essere tradito - come egli stesso ebbe ad ammettere.
In questo breve articolo, riporteremo oltre ad alcune scarne note biografiche sul Derudas, il Puzzone e il Masala desunte dalle loro registrazioni di battesimo, soprattutto la descrizione che di essi ne fa sempre il Tolu nel suo celebre libro autobiografico pubblicato dallo scrittore sassarese Enrico Costa.
Antonio Maria Derudas, che nell'atto di battesimo presente sui registri parrocchiali di Cargeghe è registrato come Antonio Maria Ruda Soro, nacque in Cargeghe il 13 febbraio del 1833 da Salvatore Ruda (in altre registrazioni Deruda) Chighine di Cheremule e Gavina Maria “Baingia” Soro di Banari, entrambi dimoranti a Cargeghe.
La carriera criminale del Derudas (continueremo a usare il cognome così come riportato dal Tolu) ebbe una svolta decisamente efferata nel 1851 quando insieme al compagno Giomaria Puzzone (nelle registrazioni parrocchiali: Giovanni Giuseppe Maria Pugioni Fadda. Cargeghe 9 aprile 1830, di Antonio Pugioni di Maragolia e Maria Francesca Fadda di Thiesi). trucidarono sul sagrato della chiesa parrocchiale di Cargeghe il capitano dei barracelli.
Così viene riportata la vicenda sul libro del Tolu:
«Annoiato della mia solitudine, durata per oltre un anno, mi ero unito in quel tempo ai banditi Antonio Maria Derudas e Gio. Maria Puzzone, di Cargeghe; i quali battevano la campagna dopo l'assassinio del capitano dei barracelli, da loro freddato nel piazzale della chiesa del paese, mentre rincasava. (…) Ho già parlato dei due banditi Antonio Maria Derudas e Giovanni Maria Puzzone, di Cargeghe, datisi alla campagna dopo aver ucciso il capitano dei barracelli, che li disturbava nelle loro imprese rapaci. Questi giovani vagabondi erano ladruncoli che prendevano diletto a uccider buoi e cavalli, a danno del barracellato.» (…) Poco dopo l'uccisione del capitano, un altro giovine di Cargeghe – Angelo Masala – uccise certo Manconi, suo compaesano, e fuggì alla giustizia dandosi alla macchia. Si ebbero così, in breve tempo, tre banditi di Cargeghe.»
Sui registri parrocchiali si trova anche la registrazione di battesimo di quest'ultimo: Angelo Masala Merella. Cargeghe 18 luglio 1831, di Baingio Masala e Giovanna Merella entrambi cargeghesi.
«Il fratello dell'ucciso – Giovanni Manconi – volendo vendicarsi dell'assassino, chiese l'aiuto dei due banditi Derudas e Puzzone; e tutti e tre riuscirono a freddare con una fucilata Angelo Masala, che sotterrarono in campagna, senza che alcuno li vedesse.
Il prete Luigi Tolu di Cargeghe, mio cugino, un giorno si rivolse a me, pregandomi di proteggere il bandito Derudas, che voleva liberare ad ogni costo, ritenendolo un disgraziato, più che un cattivo soggetto. E fu dietro alle sue insistenti raccomandazioni, che mi decisi ad unirmi col Derudas e col Puzzone, coi quali rimasi per circa un anno, sebbene non di continuo.
Un giorno, insieme al Derudas, attraversavo il sito della Funtana de sa piarosa, di fronte alla cantoniera di Campomela, nel tenimento di don Battista Solinas di Cargeghe. A un certo punto il mio compagno si fermò, e, indicandomi una zolla, mi disse sorridendo:
- Vedi? Io, Puzzone e Manconi abbiamo qui seppellito il cadavere di Angelo Masala!
Trascorsi quattro o cinque mesi, il Puzzone fu arrestato; ed io continuai a tener compagnia al Derudas, separandomene però di tanto in tanto, poiché diffidavo di lui.»
Per il 1851 probabile anno nel quale venne trucidato il capitano dei barracelli, è presente nei registri parrocchiali una registrazione di morte violenta che tradotta recita:
«22 giugno 1851 Cargeghe. Costantino Colombo di Bonorva, come da quanto riferito dalle lettere del giudice ordinario, morì, come si scoprì dai segni rinvenuti, di morte violenta lungo la strada nella comunione della Santa Madre della Chiesa. Il suo corpo è sepolto nel cimitero. In fede Luigi Tolu pro parroco».
Sempre nei libri parrocchiali è presente anche la probabile registrazione di morte del Manconi per mano del Masala:
1 novembre 1853, Cargeghe. Pietro Manconi Marongiu celibe figlio del defunto Domenico e Antonia Maria di questo luogo, la sua età di circa ventiquattro anni, nell'agro, colto da morte violenta senza sacramenti, il suo corpo è sepolto nel cimitero. In fede Luigi Tolu pro parroco.
La criminale carriera del Derudas ebbe un epilogo quando Giovanni Tolu avendo la certezza di essere stato tradito dal Derudas e dalla moglie, architettò un piano per farlo cadere nelle maglie giustizia. È lui stesso a raccontarlo in un capitolo del suo libro dedicato proprio al Derudas.
«Nel territorio di Banari era il molino di proprietà della contessa Musso. Il mugnaio, che lo aveva in affitto, viveva in continui litigi colla propria moglie, poiché costei teneva seco una bambina illegittima, che turbava la pace domestica.
Tanto io, quanto il mio compagno Derudas, capitavamo con frequenza nel molino, e la moglie del mugnaio si sfogava con noi, mettendoci a parte dei disaccordi coniugali.
Un giorno che mi trovai solo con essa, la moglie inasprita mi raccomandò caldamente di liberarla dal peso del marito, uccidendolo.
Feci di tutto per smuoverla dal suo proposito:
– Metti giudizio, e sta savia! – le dicevo. – Non dar retta ai tristi consigli della tua coscienza. Fa la pace con tuo marito, e vivete tranquilli!
Il mugnaio era un buon uomo; ci dava ospitalità con piacere, e di tanto in tanto mi regalava qualche scudo. M’irritavano, dunque, gli eccitamenti di quella femmina, che ad ogni costo voleva diventar vedova.
Ma la donna è tenace ne’ suoi proponimenti di vendetta; e la moglie del mugnaio, vedendo la mia ripugnanza a compiacerla, mi lasciò in pace. Ella si rivolse segretamente al mio compagno, a cui offrì sessanta scudi per eseguire il colpo.
Il bandito Derudas si lasciò convincere dal danaro e dalle tenerezze della bella mugnaia; e un bel giorno, con una buona fucilata, le tolse dal fianco l’importuno marito.
Quando appresi il fatto, rimproverai acerbamente il mio compagno:
– Che cosa hai fatto? Perché uccidere l’uomo che ci dava a mangiare e ci offriva asilo nei giorni del pericolo? Sei un tristo e un miserabile!
Il Derudas si strinse nelle spalle e mi disse:
– Oh, sta a vedere che un bandito dovrà lasciarsi vincere da uno scrupolo!
Avvenne intanto che il mio compagno erasi pazzamente innamorato di Maria Grazia, la bellissima vedovella di un altro mugnaio, il quale conduceva il molino di San Lorenzo, nei dintorni di Florinas, da me pure frequentato. Antonio Maria Derudas fece di tutto per celarmi la sua fiamma; ma non tardai ad accorgermi che sospettava di una segreta relazione fra me e la vedova.
Io rideva delle sue smanie gelose, poiché sapevo che la vedovella, una bellissima donna, era realmente innamorata di un terzo: di un giovane, col quale erano passati accordi di matrimonio.
Il giovane innamorato erasi con me aperto, svelandomi che le relazioni colla vedova erano di natura molto intima. Egli chiedeva un mio consiglio.
Io, che sapevo scaltra la vedova, poiché nelle assenze del giovane cercava di tirare a sé anche il Derudas, gli dissi:
– Apri gli occhi, fratello! Tu devi fidare nella mia sola amicizia. Quando ti avviserò di non andare più da lei, ubbidiscimi!
E il giovane, infatti, aveva cominciato a rendere più rare le visite al molino, dopoché si era accorto che la vedovella aveva un cuore sì largo, da poter dare ricovero ai due… ed anche a tre!
Nondimeno la scaltra mugnaia, accompagnata dal suo giovane amante, un bel giorno fece una gita a Sassari, insieme ad altro mugnaio colla rispettiva moglie. Le due coppie presero alloggio in un’osteria, ordinando una camera separata, per ciascuna.
Questo fatto fece mormorare i maligni, e specialmente i coniugi mugnai, ch’erano stati testimoni della scandalosa intimità dei due compagni di viaggio. Tornata la vedovella al molino, non tardò a notare la freddezza del giovane e la corte più assidua che le andava facendo Derudas, ignaro del fatto dell’osteria. Temendo che il mugnaio e sua moglie, colle chiacchiere, riuscissero a far aprire gli occhi a Derudas sull’episodio di Sassari, la vedovella si strinse vieppiù a quest’ultimo, esortandolo ad uccidere i due testimoni pericolosi, non so per quali torti, che diceva aver
ricevuto.
Il Derudas un bel giorno venne a confidarmi le apprensioni della vedova, la quale gli consigliava ad uccidere il mugnaio e la moglie, perché ci facevano la spia.
Io, che tutto sapevo dal giovane amante, gli risposi infastidito:
– Ma non ti accorgi dunque che sei menato per il naso? Da qualche tempo a questa parte mi vai contando frottole, che mi rivelano la tua poca lealtà. Fammi toccare con mano che i coniugi mugnai ci fanno la spia, e mi prenderò io l’incarico di spararli, poiché nel tiro sono di te più esperto. Cessa, però, dallo spacciarmi tante fandonie. Apri gli occhi da una buona volta, ed ascoltami! Il giorno che tu torcerai un capello a quel buon uomo, od a sua moglie, avrai da farla con me! I capricci e gli
amori ti costeranno ben cari!
Il Derudas si offese, e mi tenne il broncio; ed io mi accorsi che cercava vendicarsi. Legato alla vedova da relazione amorosa, si erano entrambi proposti di farmi arrestare, colla speranza di
conseguire la loro felicità. La causa del Derudas era meno grave della mia, ed egli sperava di ottenere dal Governo l’impunità, a prezzo della mia cattura o della mia morte, ottenute col mezzo
di una delazione o di un tradimento.
Era questo il sogno di Maria Grazia, che voleva disfarsi di me, per unirsi in matrimonio con un bandito graziato. Il giovane si era stancato di lei, ed ella non voleva perdere il secondo partito.
Ricordando le mie minaccie, e temendo il mio furore, il Derudas tornò a parlarmi della convenienza di uccidere i due mugnai, che ci facevano la spia. La vedovella pareva preoccupata di quel certo caso dell’osteria di Sassari, che poteva mandare a monte il suo matrimonio.
Ero sul punto di tutto svelare al mio compagno, ma mi contenni. Mi limitai a rispondergli con malagrazia:
– Di nuovo colle supposte spie? Decisamente le donne t’empiono la testa di vento. Te l’ho pur detto di non più parlarmene!
E così dicendo mi alzai con stizza, come per uscire dalla capanna, in cui entrambi si era.
– Dove vai? – mi chiese Derudas con tono risentito.
Mi voltai, squadrandolo con disprezzo:
– Vado dove mi pare e piace! D’ora innanzi, se ti è cara la mia compagnia, dovrai venirmi dietro come un cane. Io non ti comunicherò più le mie intenzioni!
– Allora sarà meglio che ciascuno faccia la sua strada! – mi disse con aria brusca.
– È precisamente quello che desidero! – risposi secco. – Ti predico, però, che dentro l’anno cadrai nelle mani della giustizia… e ti arresteranno addormentato. Io conosco quanto vali!
Così dicendo piantai il mio compagno; e da quel giorno ci guardammo in cagnesco. Io voleva solamente accertarmi del suo proposito di farmi la spia, di concerto colla scaltra vedovella. Una volta avute in mani le prove della loro perfidia avrei io pensato al modo di fargli pagar caro il tradimento.»
«Da poco tempo ero separato dal Derudas, quando egli uccise il bandito che aveva scelto a suo nuovo compagno. Dirò brevemente il fatto.
Un ricco possidente d’Ossi si era bisticciato vivamente con un suo servo, certo Antonio Elias; e s’inasprì talmente che lo percosse. Il servo, più robusto di lui, si avventò al suo padrone, e dopo averlo picchiato si salvò colla fuga.
Il ricco proprietario, volendo vendicarsi dell’atroce insulto, mi chiese un abboccamento in campagna. Egli mi propose una larga ricompensa, se avessi tolto dal mondo quel servo prepotente ed ingrato. Gli risposi che si fosse ad altri rivolto, poiché io non solevo uccidere chi non mi aveva offeso.
Appresi in seguito che il padrone si era rivolto a Derudas, proponendogli la stessa uccisione. Il Derudas osservò che non osava fare il colpo, perché temeva la mia collera e la mia vendetta.
Allora il proprietario di Ossi, coll’intento d’incoraggiarlo, gli fece credere avergli anch’io promesso di sbarazzarlo dal servo audace.
– Pensaci, dunque, se vuoi guadagnare ottanta scudi!
Anche questo colloquio era venuto a mia conoscenza, per la relazione di confidenti, che a me non mancavano.
Avevo intanto saputo che il bandito Elias, il servo prepotente, si era dato a scorrazzare la campagna insieme al Derudas, che se lo aveva associato come compagno di ribalderie.
Un giorno Derudas osò venirmi incontro. Avendolo poco prima veduto con Elias, gli dissi seccamente:
– E perché ti presenti solo? Non è forse degno il tuo compagno d’essermi presentato? Chiamalo pure, se lo hai nascosto!
Derudas si accostò al ciglione, e lo chiamò con un lungo fischio. Quando comparve l’altro bandito, lo apostrofai:
– Perché ti accompagni con Derudas? Non hai capito ancora che egli fu pagato per ucciderti? Abbandonalo, se ti è cara la vita!
Il Derudas mi fulminò con un’occhiata, ma tacque. Senz’altro dire, fece un brusco cenno al compagno, e si allontanarono.
Ero sul punto di fargli fuoco addosso, ma poi mi contenni.
Due o tre volte era venuto a tiro del mio fucile, ma sempre lo risparmiai, non volendo si dicesse che io uccidevo i miei compagni. Uccidere il proprio compagno è per i banditi la più grande delle vergogne e delle vigliaccherie; poiché darebbe a sospettare che l’uccisione sia seguita nel sonno. Aspettai un’occasione più propizia. Volevo d’altronde accertarmi che insieme all’amica mugnaia egli mi facesse realmente la spia.
Non trascorse una settimana da quel nostro incontro, quando Derudas uccise il giovane Elias, per la cui morte gli vennero sborsati ottanta scudi dal ricco proprietario d’Ossi. Questa somma gli abbisognava per la liberazione. In noi banditi era radicata la credenza che la giustizia avesse bisogno di soldi per chiudere gli occhi ed alleggerire la mano, e la giustizia d’allora non era quella d’oggi! I giudici erano anch’essi complicati nei partiti, e ciascuno aveva i suoi bravi protetti e protettori, specialmente a Sassari.
Verso quel tempo Derudas aveva tentato di separarsi dalla vedovella; ma questa gli disse:
– Bada, Antonio Maria, a quello che fai! Ricordati che per te ho licenziato un giovane che mi voleva bene. Se persisti ad abbandonarmi perché stanco di me, ti prevengo che mi raccomanderò a Giovanni Tolu per aggiustare la faccenda!
Questa minaccia sortì il suo effetto, poiché Derudas aveva paura di me. Egli finì per sposare la vedovella in casa del rettore, a Banari.
La teneva in un molino, dove andava a trovarla di tanto in tanto, dandole appuntamenti in questo o in quel punto, come usano tutti i banditi ammogliati, che non possono avere una casa coniugale.
Non corse lungo tempo che Derudas venne arrestato, avverandosi la mia profezia. I carabinieri lo avevano colto mentre dormiva. L’imbecille si era svegliato in carcere!
La mancanza di prove testimoniali favoriva la causa di Derudas. I processi erano per la maggior parte indiziari; e correva la voce della probabile assoluzione del bandito mio compagno. Si
accennava da taluni a persone influenti, a qualche giudice a cui si erano dati gli 80 scudi di Elias per diventare più giusto. Non mancò chi mi pose in avvertenza, dicendomi che la bella mugnaia era intesa col detenuto marito per ottenere l’assolutoria, facilitandola colla mia cattura.
Quest’ultima diceria – che correva da qualche tempo – mi aveva messo i brividi addosso. Sentivo di essere feroce. Ero pentito di non aver ucciso Derudas; maledicevo gli scrupoli e i riguardi ridicoli, che avevano trattenuto il mio braccio.
Quale umiliazione per me, se si fosse avverato il pronostico!
Io in carcere, e Derudas in libertà? Questo pensiero mi torturava.
Avevo bisogno di convincermi che realmente Maria Grazia mi tendesse un’insidia. Non volevo prestar fede ai molti che mi assicuravano che fra il detenuto e la moglie (annuente la polizia) correvano segreti rapporti.
Vivevo irrequieto; le mie notti erano turbate da sogni angosciosi. Avrei voluto travestirmi da guardia carceraria per uccidere il mio perfido compagno nella sua cella di San Leonardo.
S’ei fosse uscito dal carcere prima della mia cattura, sarei stato più contento, poiché avrei potuto ucciderlo al fianco della propria moglie; ma chi mi assicurava che la sua libertà non era
subordinata alla mia perdizione?
In preda a questi tormenti non pensai che a procurarmi le prove del tradimento a mio danno.
Aggirandomi un giorno nelle vicinanze del molino della moglie di Derudas, mi cacciai nel vicino bosco, dove vidi la sua bella servetta, che andava in traccia d’un maiale sbandato. Siccome in altri tempi le avevo fatto un po’ di corte, me le avvicinai sorridendo:
– Buon giorno, Catterina. Come stai?
– Oh! Beato chi ti vede! È un bel pezzo che non vieni a trovarci nel nostro molino!
– Dacché hanno arrestato il tuo padrone ho sospeso le visite al molino per non dar pasto alla maldicenza.
– Che scrupoli! E perciò hai avuto paura di rivedermi? Ben gentile!
– Riparerò al mio torto fra breve. Verrò a salutare Maria Grazia… e te più di lei.
– Possibile! E quando? La mia padrona sarà tanto contenta di rivederti. Mi parla sempre di te.
Verrò… fra due giorni; venerdì, o sabato… dopo l’imbrunire.
– Davvero?
– Bada di non dirlo a nessuno, Catterina! Addio, belloccia!…
– Tieni le mani a posto!
– Sei proprio adirata con me?
– Te lo dirò quando verrai al molino.
E la servetta si allontanò, saltellando come una capriola.
Né il venerdì, né il sabato mi mossi per andare al molino; ma la sera stessa pregai un mio parente, perché si appiattasse per tre giorni in un punto lontano, per sapermi riferire le persone che
sarebbero andate a far visita alla mugnaia.
– È questione forse di gelosia?
– No: è un mio capriccio. Bada di non farti vedere!
La domenica mattina il mio congiunto tornò a me. Era alquanto turbato.
– Ebbene? – gli chiesi. – Hai scoperto il misterioso visitatore?
– Altro che visitatore! Venerdì sull’imbrunire mi sono imbattuto in sei carabinieri sulla strada di Codrongianus. Erano diretti al molino, e li ho visti sparire nel vicino boschetto. Certo si trattava di un appiattamento, perché vi sono rimasti due notti. Erano guidati dal maresciallo, il quale entrò due volte nel molino, dopo le dieci.
La trama era scoperta, ed io non potevo più dubitare della perfidia di Maria Grazia, che cercava di vendere la mia pelle per salvare quella di suo marito.
Dovevo dunque pensare alla vendetta: punire il marito dentro il carcere, e strapparlo per sempre alla moglie; e tutto ciò senza far uso del mio fucile.
Il tempo stringeva. Il dibattimento di Derudas era incominciato, ed ogni ritardo poteva pregiudicare il mio disegno.
Mi ricordai della confidenza fattami un anno addietro da Derudas, dinanzi alla cantoniera di Campomela.
Senza frapporre indugio mi recai al villaggio di Mores, per abboccarmi con Antonio Masala di Cargeghe. Era costui il fratello di Angelo, dell’uomo assassinato da Derudas e da Puzzone
per incarico e col concorso di Manconi.
Trovato il Masala gli dissi:
– È una vergogna, o Antonio! Com’è ch’hai fatto sì poco conto di tuo fratello assassinato?
– E che doveva io fare, quando mi sono ignoti gli uccisori? O
per dir meglio, quando mi mancano le prove?
– Le prove si trovano sempre, quando si cercano!
– Così fosse! Che cosa mi consigli di fare?
– Fidarti di me. Hai tu avvocato a Sassari?
– Sì. Il dibattimento credo sia già incominciato.
– Chi è il tuo avvocato?
– Cossu, il grande.
– Ebbene, bisogna scrivere al tuo avvocato.
– Scrivere che cosa?
– Presso a poco nei termini che io ti suggerirò.
– Sentiamo.
Ed io dettai, accentuando le parole:
“Illustrissimo Signor avvocato, Le do alcuni ragguagli che Ella si affretterà a comunicare al procuratore del re. I testimoni Ignazio Tolu e Giovanni Manconi, già esaminati dal giudice istruttore subito dopo l’assassinio di Angelo Masala, tacquero quanto sapevano perché i banditi Derudas e Puzzone battevano allora la campagna, e li avrebbero uccisi se avessero deposto il vero. Ora però che l’uno è morto, e l’altro è in carcere, essi possono parlare. Oso sperare che l’eccellentissimo Tribunale vorrà perdonare ai due disgraziati testimoni, i quali deposero il falso, solamente per timore di perdere la vita. Angelo Masala disparve, né si ebbero le prove della sua morte per malefizio. Il suo cadavere fu sotterrato dagli assassini nel tenimento di Don Battista Solinas nel sito sa funtana de sa piarosa, in faccia alla cantoniera di Campomela. Si mandi a dissotterrare il cadavere, seguendo le traccia che a calce della presente verranno indicate”. (E qui diedi i più minuti schiarimenti sulla località da me conosciuta).
Questa lettera fu distesa e mandata all’avvocato Cossu.
Il dibattimento, che era in corso, venne sospeso e rinviato.
Si esumò il cadavere; si fece la perizia; furono uditi i testimoni indicati, e il risultato del nuovo giudizio fu la condanna di Antonio Maria Derudas ai lavori forzati a vita. Egli morì in galera dopo quattro anni di pena.»
Negli atti del Parlamento Subalpino per quanto riguarda i dibattimenti rimandati dalla classe di Sassari negli anni 1856-1857, troviamo il dibattimento di Ruda Antonio Maria per il reato di assassinio, rimandato per essere, prima di aprirsi il dibattimento, risultato avere altro processo in corso. Tale dibattimento aveva ben 11 testimoni iscritti.
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