martedì 29 dicembre 2015

Ancora sulla chiesa di San Procopio



di Giuseppe Ruiu



Nel precedente studio: San Procopio di Cargeghe, ipotesi sull'ubicazione della chiesa ruraleera stata indicata - in base a consultazione di documenti d'archivio e indagine toponomastica -un'area nella quale si pensava fosse anticamente ubicata la chiesa campestre, oggi non più esistente. 
Ricadente nel territorio, a valle dell'attuale abitato, dove la tradizione popolare ritiene fosse stanziata Carieke, la Cargeghe medievale. Tradizione, sembrerebbe, supportata da indagini archeologiche condotte alla fine del secolo scorso. 
Grazie a una memoria orale, pressoché sconosciuta, è possibile circoscrivere con più precisione il sito dove si ritiene fosse anticamente collocato l'edificio di culto.
Materiali lapidei e frammenti ceramici in superficie sparsi sul terreno, indicano forse la presenza di una struttura in muratura. 
L'area conservava, almeno fino al XVIII° secolo, l'agiotoponimo di Santu Procòpiu o Precòpiu, come indicato nei registri parrocchiali dell'epoca.



















martedì 3 novembre 2015

Il testamento dell'avvocato don Giommaria Satta, ultimo cavaliere di Cargeghe


a cura di Giuseppe Ruiu


Riesumato dall'oblio degli archivi dopo un lavoro di ricerca, e trascritto fedelmente dall'originale in lingua italiana, l'inedito manoscritto, composto da sei fogli, del testamento orale fatto di fronte a testimoni con una dichiarazione solenne, dell'ultimo rappresentante della famiglia dei cavalieri Satta di Cargeghe (qui la loro genealogia), l'avvocato don Giommaria Satta Budroni - la cui non sempre lieta parabola terrena è stata descritta in altro lavoro -, rappresenta un prezioso documento della prima metà del XIX° secolo, di sicuro valore storico per Cargeghe, in virtù del fatto che egli lasciò beneficiaria della gran parte del suo patrimonio la chiesa del paese.
Per tramite della dettatura del morente, riportata con grafia decisa e mano precisa dall'estensore, il notaio Giovanni Maria Floris, è possibile rievocare le sue ultime volontà in tutta la loro morale e mortale ritualità.

Nella trascrizione ci si è attenuti alla grafia originale. Alcuni interventi sono stati effettuati esclusivamente nelle abbreviazioni, nella punteggiatura e nella resa delle maiuscole. Il tutto per uniformare il testo e renderlo più leggibile secondo criteri sintattici e ortografici moderni. I termini di interpretazione incerta sono compresi tra parentesi quadre con punto interrogativo.

Foglio I
«Testamento nuncupativo del signor avvocato Giommaria Satta cavaliere di questo villaggio di Cargieghe come infrascritto

L'anno del Signore mille ottocento trentuno ed allì undici del mese di marzo in Cargieghe

Nel nome del nostro Signore Gesù Cristo della Santissima Vergine Madre Maria, e più Santi della celeste patria.

Dovendo tutti morire nel tempo, ad ora incerta; quindi [?] che io avvocato Giommaria Satta cavaliere di questo villaggio deposto in letto, oppresso da corporal malattia, sano però di mente, vista, udito, e con chiara favella faccio questo nuncupativo testamento presso l'infrascritto notario di mio ordine chiamato e da me pregato nel modo e forma seguente.

Raccomando l'anima mia al suo Creatore, acciochè come degnossi redimerla col preziosissimo suo sangue, si degni così bene riceverla nella Sua alta Gloria. 

Eleggo sepoltura ecclesiastica, in questa parrocchial chiesa, al mio cadavere nella capella patronato sotto l'invocazione delle Anime del Purgatorio, vestito di abito bianco e posto entro una cassa nuova foderata di velluto nero in setta, con zallona d'oro vero, ivi portato dai confratelli dell'illustre Arciconfraternita di Santa Croce, di cui ne sono attual priore, con dare al detto oratorio dodici candele di cera tre a libra, le quali si porteranno dai confratelli per accompagnare il cadavere in detta parrochial chiesa, senza computarsi questo nella funeralia, accompagnato dall'apparato con tre pause così dette, con applicarmi quattro messe d'apparato una corpore presenti, la seconda il giorno del terzo, la terza il giorno settimo e la quarta il giorno trigesimo, con mettere nell'altare al tempo della vispertina il numero di dodici candele da tre a libra ed altre dodici in giro del cadavere al tempo della messa e responsorio corpore presenti; per tutto il quale lascio la somma di scudi cento moneta sarda che perciò dovrà vendersi l'argenteria, le botti ed altri mobili ed utensili di casa, eccetuati quelli come infra [predigati?]; e non bastando questo dovrà pagarsi alla vendita delle mie peccore ed il sopravanzo di essa partita dovrà applicarsi in tante messe basse, in suffraggio dell'anima mia, per cui ed a questo solo riguardo né incarico il paroco pro tempore di questo medesimo villaggio, che nomino

foglio II
per esecutore per la sola asistenza alla vendita, affinché si eseguisca il disposto della sola mia funeralia ed impiego di detta somma come sopra.

Lascio a riguardo di legato alla vedova Maria [Sechi?] di questo villaggio, un rasiere di grano, a Maria Tolu Demartis mezzo rasiere di grano, a Gian Gavino Tolu altro mezzo rasiere di grano, per una volta soltanto, a riguardo della servitù che mi han prestato quali legati, si davano dal mio esecutor testamentario nominando dopo seguito il mio decesso, del grano si troverà in magazzino e nel caso non verrà trovato, dal grano della prima raccolta.

[Prelego?] alla baila o servante Maddalena Saba tre rasieri di grano, per una via tantum, da darsi come [?]. Inoltre lascio alla stessa Saba qualche utensileria di cocina che le abbisognasse, e qualche altro per la farina colla tavola di noce per fare il pane, da scegliersi li utensili d'accordo dell'esecutore nominando.

Di più lascio alla medesima servante Saba uno dei due otri esistenti nella stanza ove essa dorme, a scegliersi a di lei piacimento, insieme al cortinaggio di tela, pagliericcio con materazzo e tre coperte di lana gialla alquanto usate ed un poco di lenzuolla nuovi, tela ordinaria.

Alla figlia di essa Maddalena, detta Lucia, lascio così come jure legati il sofà, che si destinò a Cicitu mio, fu mio figlio, allor quando andiede in Sassari agli studi, col picol pagliaricio, matarazzo coperta di lana ed un paio di lenzuolla nuovi, tela ordinaria, se vene fossero rinchiusi e conservati nella cassa grande nera, lascio jure legati alla figlia dell'oggi difunta Maria Ritta Pinna, chiamata Cattarina e del vivente Salvatore Pitalis, l'altro cortinaggio esistente nella medesima stanza oggi giorno, ove dorme la detta baila Saba, insieme con trepiè e tavole d'altro letto, ed un poco lenzuolla e coperta sia bianca che d'altro colore sevene fosse, e ciò a riguardo della servitù, che prestò in casa la detta defonta madre Maria Ritta ed a me.

Lascio così bene a riguardo di legato a Giovanni Antonio Carta di questo villaggio, la sciabola colle monete d'argento, due tratti di terra aratoria sitti in questi territorri, e nella vidazoni di Campo di Mela, denominati uno Su Narbone di Santu Pedru e l'altro Sas coas de molinu in considerazione della verace stima e della comune benevolenza che da cugino, quale egli [?] è, mi professa.

Foglio III
Similmente lascio jure legati al bailo e servitore Antonio Uda, la tentorgia che ho della cavalla grande ed al figlio Giuseppe la polledra, in compenso della servitù che mi prestarono.

Lascio a riguardo di legato alle monache capucine della città di Sassari, annualmente ed in perpetuo, un rasiere di grano, coll'obbligo di farmi applicare annualmente e perpetuamente tre messe basse.

Voglio che recandosi annualmente per la questua li religiosi operanti di Terra Santa, si dia alloggio nelle case destinando per legato del detto Antonio Uda e Maddalena Saba, con prestare da questi ad essi religiosi l'attendenza con provvederli a spese dell'asse ereditario, di letto, d'alimenti tanto per essi che per i cavalli saranno necessari, e ciò annualmente e perpetuamente.

Lascio alla parrochial chiesa del villaggio di Muros, sotto l'invocazione dei Santi Martiri Gavino, Protto, e Gianuario il salto di terra aratoria posto in Campu de Mela, una parte del quale si chiama Serra Mamone, e l'altra parte di [Scala?] Mamone, coll'obbligo di celebrarsi perpetuamente un anniversario con messa apparato e responsorio solenne annualmente e perpetuamente nel giorno del mio decesso, con [?] nell'altare nell'altare maggiore (sic) sei candele di libra.

Voglio che mentre vivano li predetti congiugi bailo Antonio Uda e baila Maddalena Saba godano a vitta durante possiedano la porzione dello stallo di mia attuale abbitazione, cioè la stanza ove attualmente detta Maddalena dorme, colla cocina oggi giorno di mio uso, colle rimanenti stanze attigue pur poste di basso, coll'obbligo d'alloggiare una volta l'anno recandosi per la questua li religiosi operanti di Terra Santa, somministrandoli la sola attendenza, e dello stesso modo si darà alloggio ed attendenza alli [?] delle monache capucine, e regio spedale di Sassari.

Lascio al paroco pro tempore di questa paroqial chiesa il rimanente di questo mio dominario, con tutto il giardino annesso dei portogalli (aranci - ndc), vitti, ed altri alberi fruttiferi, che lo compongono, coll'attigua vigna detta di Cannedu vanno, ed alberi di olivo e sue pertinenze, coll'obbligo perpetuo d'applicare e far applicare settantacinque messe basse annualmente in suffragio dell'anima mia e di più a tutti miei congiunti

foglio IV
seconda di mia intenzione; di celebrare la festa di San Giovanni Battista con vespro e messa in apparato il giorno in cui cade, con mettere all'altare all'altare maggiore (sic) e nel caso in cui la capella di esso Santo, nella medesima, con accendere in esso altare il numero candele di tre a libra dodici e senza accendere, cioè cera nuova: ugualmente sarà obbligato il paroco pro tempore fare tutte le necessarie riparazioni in esso dominario, come anche nelle muraglie del giardino, ripparato ed in buono stato ed al dovuto tempo coltivato e mantenuto lo stesso giardino e vigna qual buon padrone di famiglia. 

Seguita poi la morte dei predetti baili coniugi Antonio Uda e Maddalena Saba, prevenga allo stesso paroco pro tempore la porzione dello stesso Stallo e tutto unito lo possieda il medesimo paroco, coll'obbligo della perpetuamente applicazione di altre quaranta cinque messe basse, formanti quelle e queste di totale numero di cento venti messe basse annualmente e perpetuamente; e nel caso che per un solo anno lasci esso reverendo paroco di coltivare ed attendere esso giardino e vigna, ripparare ed attendere il dominario e [?] come sopra da quel paroco contraventore, decada dal possesso durante il tempo starà paroco; ed in tal caso, l'ordinario, colle stesse condizioni ed obbligo del paroco potrà nominare altro soggetto di suo piacimento purché sia persona ecclesiastica o sacerdote e la tal persona non adempiendovi, decada dallo stesso possesso come il paroco contraventore, come pure dandosi il caso di essere vacante la parochia, durante la vacanza della medesima, possieda colle stesse condizioni ed obbligo esso dominario, giardino e vigna, la stessa parochia e non in altro modo e forma.

Interrogato io testatore dall'infrascritto notario. Rispondo non lasciar partita di danaro a questo montenumario (monte nummario - ndc) né di soccorso: partita, elemosina, ne cosa alcuna al riscato dei [?], né al conservatorio delle figlie della provvidenza; e solamente lascio al regio spedale della città di Sassari, la limosina di corbole (ceste - ndc) tre di grano annualmente e perpetuamente, da consegnarli all'occorrenza una l'economo spedaliere per la questua in questo villaggio e non altrimenti.

Dichiaro che il rasiere del grano come sopra lasciato alle monache capucine di Sassari, debba consegnarsi all'economo di esse venendo in casa per l'annuale 

foglio V
questua del grano, per condurlo ad esso monastero capucino.
Nei rimanenti dei miei beni presenti e futturi, e per avere in qualunque modo e forma a me spetanti, instituisco per mio erede universale questa parochial chiesa di San Chirico (sic) sotto l'invocazione dei Santi Martiri Quirico e Giulita, nell'obbligo di far il trentenario, computandosi nel medesimo le quarantore che nell'ultimi tre giorni di carnevale con dire ogni sera il rosario, le litanie della Madonna, ed in fine la benedizione col venerabile e responsorio alle Anime del Purgatorio, con annessi diciotto candele nell'altare maggiore, e nella settimana di Passione, il settenario della Madonna Adolorata, da celebrarsi nella stessa parochia ed altare maggiore, con accendersi ogni sera dodici candele di tre a libra, non più [?] accesa e venti quattro il giorno della festa, con messa d'apparato, con fare una lapide di marmo nella detta capella patronato colla sua iscrizione, ossia epitaffio a piacimento del paroco, e sotto la lapide, la tomba, in cui deve esser riposta la cassa col cadavere, il quale voglio che per nissun titolo venghi rimossa e non altrimenti; come pure voglio, che quando vi saranno fondi dai frutti che procurerà da detti rimanenti beni, si faccia in detta chiesa la capella di San Giovanni Battista col suo altare, il simulacro della Vergine Addolorata colle spade d'argento: e finalmente voglio, che qualora vi siano frutti provenienti da detti beni, che si impieghino a beneficio di essa chiesa parrocchiale purché non si impieghino in lingeria, in ornamenti, in cera, in oglio, e cose simili, per la di cui cura ed esecutore di questo mio testamento nomino l'ordinario, [affinché?] nel modo sovra ordinato faccia eseguire, ed eseguisca quanto in questo mio testamento ho prescritto, sempre detti miei beni, si possano alienare o commutare, per qualsivoglia titolo da qualunque soppresione, ancorché sia il romano pontificio, e nel caso si voglia commutare od alienare, voglio, ed a mia irrevocabile volontà, la quale voglio, che non ammetta interpretazione alcuna, che tutti i [?] rimanenti beni lasciati a questa chiesa parrochiale nella qualità d'erede, di [condursi?] e di applicarsi in tante messe private fra lo spazio di due mesi, in suffragio dell'anima mia, dei miei genitori, e del fu zio Sacerdote Giovanni Budroni, autorizando nel caso di commuta ad alienazione che si prettendesse, il paroco pro tempore a sostenere questa mia volontà in quanto sarà possibile, con fare anche dalle spese dei frutti di detti 

foglio VI
miei [?] beni lasciati a questa parrochia. Sarà inoltre questa parochia obbligata ha (sic) celebrare annualmente e perpetuamente, cinque anniversari, uno il giorno del mio obito, il giorno dell'obito dei miei genitori, in quello dell'obito del mio fratello domenico, ed in quello dell'obito del fu mio zio fu Giovanni Budroni, coll'obbligo pure di dare al paroco pro tempore scudi sei il giorno della festa della Vergine Addolorata ogni anno perpetuamente, con questo che abbia sorvegliato sull'adempimento di tutti i legati perpetui, nel caso non abbia così adempiuto, cioè di sorvegliare, voglio che pur quell'anno, o anni, sia egli [privo?] del legato delli scudi sei.

Questo è il mio testamento, ed ultima volontà mia, che voglio valga per tale e se per tale voler non passa, voglio valga per codicillo, donazione causa di morte, od in altra miglior maniera possa aver luogo in dritto, rivocando qualunque altro testamento da me precedentemente fatto, mentre il presente voglio sia posto nella totale esecuzione il quale per essermi stato letto dall'infrascritto notaio alla presenza dei [?] testimoni in alta, ed intelligibile voce, dalla prima fino all'ultima riga e pur anessa come intelligente capitolo, per capitolo ben compresa la loro forza, in ogni sua parte l'approvo, ratifico e confermo e prego li sette [?] signori testimoni, unitamente allo stipulante notario, abbiano da soscrivendo e lo soscrivo io di propria mano di [?] = Cavaliere Giommaria Satta =

Testi presenti alla lettura di questo testamento, pregati da detto testatore, sono i sottoscritti [?]

sacerdote Antonio Cherchi teste = sacerdote teologo Francesco Maria Polo teste = sudiacono Salvatore [?] teste = chierico Luigi Tolu teste = Giommaria Pisano teste = Giuseppe Demelas teste = Giuseppe Tolu teste = Giommaria Floris notario pubblico. 
[…]
Cargieghe, li 11 marzo 1831»

Sassari, Biblioteca Universitaria, Fondo Soppresse Corporazioni Religiose, ms 698, CNMD\0000046270, cc. 154r-157v


Intestazione


venerdì 16 ottobre 2015

La casa parrocchiale di Cargeghe, foto-inchiesta



di Giuseppe Ruiu


La casa parrocchiale di Cargeghe ha sempre attratto la curiosità di molti, forse per quell’alone di mistero che vi aleggia: c’è chi giura sulla presenza di arcaici tunnel voltati a botte celati nei suoi sotterranei, chi invece asserisce essere stato suo antico proprietario il famigerato Duca dell’Asinara, tra i più insigni e temuti feudatari di Sardegna. Niente di più è lecito sapere, nessuno studio specifico vi è stato mai condotto che si sappia.

Entrarvi significa compiere un viaggio a ritroso nel tempo e, solo per un attimo, sorvolando sulle ingiurie apportate dalla negligenza umana e dallo scorrere lento dei secoli in questo lembo di Logudoro, è possibile immaginare gli ambienti nel loro stato di grazia durante l’Età dei lumi. Ecco, d'improvviso pare quasi di scorgere una dama incedere con grazia, in un frusciare di sete, lungo gli anditi polverosi mentre al suo fianco, seguito dai lacchè, un nobile dell’Ancien régime dal volto austero le porge il braccio con garbo.

Chissà quali sfarzosi ricevimenti sotto le volte decorate dei saloni, quali riti e cerimonie settecentesche si celebrarono al riparo delle laccate porte di quercia… Oppure fu solo una rustica residenza di periferia abbellita per sostenere il rango del proprietario e rendergli più comode le battute di caccia nella zona?

Probabilmente non si saprà mai, quel che è certo è che oggi questa vetusta palazzina, di proprietà della curia di Sassari, versa in uno stato di forte degrado. Le pitture murarie, e gli stucchi, presenti al suo interno, già in parte deteriorati, rischiano di venire definitivamente compromesse.

La mancata salvaguardia e recupero della nostra cultura materiale non può essere giustificata dalla cronica mancanza di risorse finanziarie, e il senso civico ci impone ogni sforzo teso al recupero dall’oblio di questo edificio storico di sicuro pregio artistico che, senza dubbio, potrebbe raccontare di se parecchio se solo si avesse quella sensibilità che consente di percepire la sua silente richiesta di aiuto.

La sua probabile prima menzione, individuata dallo scrivente nei Quinque libri di Cargeghe, risale all'anno 1632, dove in un legato del testatore Juanne Anguelu de Serra Manca, vengono descritte le sue proprietà tra cui: «[...] su istallu sou de pianu de queya (q[ue] constat de 19 aposentos ey su palateddu»
La sua casa nel piano della chiesa che consta di 19 stanze e il palazzetto... e in effetti la casa parrocchiale consta di un numero di stanze molto vicino a quello indicato in questo documento, con il palazzetto ormai non più esistente, ma visibile in foto d'epoca degli anni '50 del XX° secolo.

Un'Altra fonte più antica, dell'anno 1570 menziona altro edificio a più piani quale: su palatu de mastru Pedru de Fiumen, e, sempre all'interno del villaggio, si descrive la presenza di un non meglio specificato monastero: su muristere, ma si ignora la sua esatta ubicazione ne tanto meno si conosce l'ordine monastico a cui appartenne poiché tutte le altre fonti storiche tacciono della presenza nel paese di un tale edificio sacro.

Non è possibile mettere precisamente in relazione queste strutture con l'attuale casa parrocchiale, anche se la medesima in un lontano passato avrebbe potuto costituire un unico complesso con l'adiacente chiesa parrocchiale, come ben descritto in una anonima nota dell'Archivio parrocchiale sempre della seconda metà del XX° secolo:

«Accanto alla chiesa parrocchiale sorge il complesso, perché tale va definito, dell'attuale casa parrocchiale, antico palazzetto del Duca dell'Asinara.
È formata da un ampio corpo diviso a stanze e da un androne, ora trasformato in stanza d'ingresso, ma un tempo certamente androne carraio, dal quale si accedeva ad una torretta della quale restano solo alcuni ruderi, e che probabilmente ospitava un granaio ed un forno (ancora visibile).
Dietro la casa si estende un giardino fino a qualche decennio fa strutturato “all'italiana” e nel quale sono visibili resti cimiteriali, come d'altronde nei terreni adiacenti alla piazza della chiesa.
All'interno la casa rivela decorazioni accurate ed, alcune, di buona fattura e raffinatezza (specie nelle volte), con vari motivi a grottesche, paesaggi o motivi floreali. Le porte interne conservano, sotto la vernice, i colori e le decorazioni originali.»

La casa parrocchiale vista dalla via Roma 

Il complesso con la chiesa parrocchiale sullo sfondo 

Ciò che rimane delle strutture del palazzetto 
  
Vista delle strutture dal retrostante cortile parrocchiale 

Vista sempre dal cortile parrocchiale 

 Puntellamento dell'ingresso dal cortile

Ambienti interni 

 Ambienti interni, stanza decorata

 Ambienti interni, con porta d'epoca


 Ambienti interni che affacciano sulla via Brigata Sassari

Volte decorate 

 Volte decorate

Pittura muraria: visione immaginifica di
Venezia nell '800. 

Pittura muraria: paesaggio con castello e cascate,
e soprastante emblema dei duchi Manca

 Pittura muraria: paesaggio lacustre

Stucchi 

Stucchi con putti  

 Stucchi

 Altre decorazioni si intravedono
sotto lo strato di vernice

Le stalle 

Stalle: arco tamponato 

Stalle: porta murata che dà accesso ad
altri ambienti sotterranei

giovedì 17 settembre 2015

L'agglomerato urbano di Cargeghe tra la metà del 1500 e gli inizi del 1600




di Giuseppe Ruiu




Attraverso le fonti d'archivio è possibile delineare, con un certo grado di approssimazione, l'agglomerato urbano di Cargeghe tra la metà del 1500 e gli inizi del 1600.

Tale lasso di tempo fu urbanisticamente importante per il paese poiché dal suo probabile nucleo medievale, compreso tra le odierne vie Roma, Cesare Battisti e Vittorio Emanuele, anticamente denominato: Mesu idda, esso si sviluppò nella metà del 1500 verso la chiesa parrocchiale dei Santi martiri Quirico e Giulitta, e verso la prima metà del 1600 verso l'oratorio di Santa Croce, strutture edificate in tali epoche. Queste nuove addizioni furono probabilmente i più antichi sviluppi urbanistici della Cargeghe medievale, rappresentate dagli unici edifici religiosi - posti in posizione speculare alle opposte periferie del paese – ubicati all'interno dell'odierno centro abitato.

Immagine satellitare tratta da Google
Maps con evidenziata la sezione forse
più antica dell'abitato di Cargeghe.

 Pur ignorando la genesi del villaggio, le indagini archeologiche condotte nel 1988 dalla dottoressa Giuseppina Manca di Mores (Aspetti topografici del territorio di Cargeghe in età romana) indicano in località Santu Pedru e Sant'Episcopio (in realtà trattasi del sito di San Procopio dove si trovava una chiesa oggi non più esistente) territori comunali a valle dell'attuale abitato, l'esistenza di un insediamento di lunga durata fra il II sec. a.C. e il VII d.C. posto intorno alla chiesa romanica di San Pietro, oggi anch'essa non più esistente ma menzionata nel "Condaghe di San Pietro di Silki", e dal canonico Giovanni Spano nel XIX° secolo. Una certa tradizione popolare vuole proprio che n tale sito fosse ubicata l'originaria Carieke. Sempre la medesima tradizione, indica lo spostamento di sede del villaggio verso la metà del 1300 nell'odierno sito collinare che sovrasta la piana sottostante di Campo Mela dove passava la medievale bia Turresa la: a Turris Karalis di epoca romana.

In virtù di ciò è possibile congetturare sulla ragione del cambiamento di sede dettata da ragioni sanitarie - la metà del XIV° secolo vide il propagarsi nel continente europeo e in Sardegna dell'epidemia di peste nera che rase al suolo intere comunità - e di insalubrità del sito soggetto a periodici allagamenti, ma soprattutto da motivazioni difensive e di controllo del territorio circostante, dato che in tale turbolenta epoca l'isola venne funestata da uno stato di guerra permanente tra numerose forze in campo fra cui i primi feudatari del paese: la famiglia dei marchesi Malaspina, il Regno di Sardegna catalano-aragonese, l'altra famiglia di origine ligure dei Doria e l'autoctono Giudicato d'Arborea, a seconda delle circostanze in pace o in conflitto tra essi. Seppur oggi meno evidente, il paese è ubicato in una posizione dalla quale la vista spazia sulla piana sottostante e dalla quale il paese è raggiungibile superando un non indifferente dislivello; ubicazione che induce a considerare anche motivazioni di natura difensiva relativamente alla scelta del nuovo sito da parte dei suoi abitanti.

Tutti i vari contingenti di armati irrompevano infatti nell'alto Logudoro attraverso la valle lungo l'arteria principale e dunque ben visibili dal nuovo sito che consentiva ai suoi abitanti di approntare le difese necessarie o mettersi in salvo per tempo. Nemmeno è possibile escludere che il villaggio fosse costituito "a grappolo", ossia da modesti insediamenti umani posti a breve distanza sul territorio in prossimità di un fulcro comunitario costituito da un edificio di culto.

Il nuovo nucleo medievale, costituito da case a corte o corte comune, non aveva, per quanto è possibile conoscere, un edificio religioso di riferimento, ma probabilmente i riti sacri venivano officiati ancora nella già menzionata parrocchiale di San Pietro. Questo andò avanti probabilmente fino alla metà del XVI° secolo poiché nel corso delle prime visite pastorali dell'arcivescovo turritano Salvatore Alepus nella sua diocesi - negli anni 1553 e 1555 - egli non visitò Cargeghe nonostante avesse ispezionato quasi tutti i centri vicini: Ossi, Florinas, Codrongianos, Ploaghe e Osilo. Ciò potrebbe lasciare intendere che la nuova parrocchiale non era ancora stata edificata o magari ancora in fase costruttiva, dato che i registri parrocchiali della chiesa principiano nell'anno 1569 (e dunque è lecito congetturare che l'edificio, almeno nel suo corpo principale, sia stato edificato posteriormente al 1555 ed entro il 1569, proprio al tempo dell'Alepus). Il primo arcivescovo a compiere una visita pastorale a Cargeghe fu Alfonso De Lorca (Delarca) il 23 aprile del 1598.

La larga via che conduce alla chiesa, con le sue case a schiera a corte retrostante (forse dimore gentilizie abitate dalla nobiltà campagnola cargeghese che si divideva le principali mansioni di rappresentanza feudale: majore, scrivano e obriere), risulta alquanto differente dal punto di vista urbanistico rispetto all'assetto abitativo del nucleo matrice, in un certo qual modo appare più monumentale nella sua ascesa verso il principale edificio di culto. In tutto ciò forse ebbe un ruolo di impulso, se non di committenza, il feudatario del paese, il barone di Ploaghe che all'epoca fu don Gerolamo Folch de Cardona y de Castelvì (discendente dall'antica famiglia magnatizia sassarese dei Montanyans, poi Montanyans y Castelvì, primi baroni del feudo ploaghese entro il quale ricadeva Cargeghe) e la sua consorte donna Elena de Alagon. Numerose sono le testimonianze storiche che evidenziano l'impulso a nuove iniziative edilizie dato dalle gerarchie civili e religiose nel cinquecento, non solo nelle città ma anche nei piccoli centri, avvalendosi di una nutrita ed esperta schiera di lavoratori del settore edile riuniti in corporazioni e gremi.

Immagine satellitare tratta da Google 
Maps con evidenziata la prima espansione 
urbanistica cinquecentesca verso la chiesa
parrocchiale.

Le prime menzioni della parrocchiale cargeghese (sorte forse su un preesitente edificio?) con le sue originarie cappelle tardogotiche sul lato destro della navata, sono del 1569. delle cappelle del transetto rimane invece una consunta iscrizione all'interno della chiesa che rimanda alla loro edificazione nell'anno 1588, avvalorata da una citazione in un legato testamentario presente nei Quinque libri sulla loro elevazione nell'aprile dello stesso anno. In tali cappelle si denota il nuovo stile rinascimentale che si discosta dal tardogotico originario, sintomo questo che le maestranze di picapedrers sassaresi iniziavano ad assimilare gli stilemi portati nell'isola dai gesuiti, insediatisi nella vicina Sassari pochi anni prima. A riprova di quanto asserito, nella cappella a cornu evangelii è collocata una gemma-chiave di volta con il trigramma IHS emblema della Compagnia di Gesù. 

Nei pressi della chiesa, forse sul lato destro dell'ingresso, era presente una tomba dei giganti di epoca nuragica, così come ci viene descritta dal canonico Giovanni Spano nel 1873: "Pietre coniche fisse al suolo in forma di sepoltura di gigante". Tutto intorno alla chiesa era ubicato il cimitero di Santu Chirigu, di frequente citato dalle fonti parrocchiali, il cui portale d'ingresso e la parte alta del paese: "la plaça de la paroquial iglesia" sono ben descritte in un legato del 1739, anche se qui non si intente l'attuale piazza della chiesa ma probabilmente la parte finale dell'attuale via Roma da cui una porta prossima al campanile, il vecchio ingresso, dava accesso alla chiesa. Tutti i ritrovamenti di ossa umane in questa area del paese dovrebbero essere inerenti a tale cimitero che raccolse gran parte dei deceduti, circa 300 individui, dell'epidemia di peste che falcidiò il paese nell'estate del 1652. Tale sito già in epoche più remote dovette essere luogo di sepoltura data anche la presenza di una necropoli in ziro (tombe in giara) descritta sempre dal canonico Spano il quale, per le sue ricerche archeologiche in zona, si avvaleva della collaborazione del rettore di Cargeghe dell'epoca, il teologo osilese Filippo Felice Serra, storico appassionato e proprietario di una cospicua collezione numismatica. 

In tale area, come già accennato, è lecito presumere si concentrassero gli edifici dell'autorità civile e religiosa. Nel sito di Sa Piedade ad esempio, sede del vecchio edificio comunale - in epoca fascista anche prigione: Su tzippu - ma più anticamente tra settecento e ottocento, sorto quale luogo di ammasso del grano, il primo Monte di Pietà (Monte de piedade in lingua sarda). Sappiamo da una cronaca redatta dal rettore Pietro Pilo nel 1893 (nella quale s favoleggia di una immaginifica Tresnuraghes di Cargeghe) che in tale sito sorgesse un nuraghe, all'epoca ancora visibile, ed altro non molto discosto da esso, i cui pochi resti sono ancora oggi osservabili e costituiti da alcuni grossi blocchi in pietra calcarea inseriti in un vicino muro al lato della via Roma. 

Una fonte del 1632, descrive un'abitazione: su istallu de pianu de quexia composta da ben diciannove stanze e un palazzetto: su palateddu, che dovrebbe riferirsi all'attuale casa parrocchiale, ex dimora nobiliare (casa-torre?) contiguo alla parrocchia. Ancora oggi risulta essere l'edificio più grande del paese, e lascerebbe pensare a una sua originaria funzione di rappresentanza feudale... sovente gli edifici di rappresentanza civile e religiosa - i due poteri - erano contigui. Un'altra fonte del 1570 menziona all'interno del villaggio la presenza di un non meglio specificato monastero: su muristere, ma si ignora la sua esatta ubicazione ne tanto meno si conosce l'ordine monastico a cui appartenne poiché tutte le altre fonti storiche tacciono della presenza nel paese di un simile edificio. La stessa fonte cita anche rare abitazioni a più piani (storicamente la casa sarda tradizionale nei piccoli centri era costituita da un solo piano) come: su palatu de mastru Pedru de Fiumen (lo scrivano del paese dell'epoca) e un forno: su furrague.

L'Oratorio di Santa Croce, con il suo annesso cimitero, è di circa un secolo posteriore rispetto alla parrocchiale se prendiamo per buona la datazione del 1630 incisa in una parete all'interno di esso, anche se: S'Obera de Santa Rugue è citata nei registri parrocchiali già dall'anno 1584, così come i confratelli: sos frades de sa regula. Mentre la prima menzione dell'oratorio vero e proprio è dell'anno 1672. Esso probabilmente sorse su impulso della nascente confraternita di Santa Croce, forse ancora priva di una sede appropriata. L'area su cui sorse e in cui si espanse il paese nel XVII° secolo, era denominata come: Su quirriu de Santa Rugue, e ancora oltre un secolo dopo era considerata periferia occidentale del paese, dal quale un sentiero conduceva al vicino villaggio di Muros.

Immagine satellitare tratta da Google 
Maps con evidenziata l'espansione 
urbanistica seicentesca verso
 l'oratorio di Santa Croce.

Il più antico accesso al paese dovette essere quello che saliva dalla piana sottostante di Sa serra, (toponimo da intendersi forse come “strada principale”) passante per il sentiero denominato: Su chercu mannu, e arrivava in prossimità della fonte principale del paese (la seicentesca Funtana de Runache), un tempo collegata direttamente al paese da uno slargo in forte pendio... sempre che questa, come ipotizzato in altro lavoro, fosse la sua collocazione originaria. La medesima strada (con tutta probabilità un diverticulum della, già menzionata, a Turre Karalis) che conduceva verso il paese biforcava verso l'antica chiesa di Santa Maria de Contra: la Sancta Mariae in Contra delle fonti storiche (e da questa un altro sentiero ancora in parte esistente conduceva a quelle di San Pietro e di San Procopio) nei cui pressi era ubicato il piccolo villaggio (o romitorio) di Contra, estintosi precocemente, e mai storicamente indagato.

 Immagine satellitare tratta da Google 
Maps con evidenziati i due edifici 
religiosi del paese posti sul 
medesimo asse.

Molti sentieri, definiti caminos publicos, o pitiracas, circondavano Cargeghe. Alcuni di essi, di antichissima origine, salivano sempre dall'arteria principale verso le colline interne rendendo più agevole il passaggio di pedoni, carri e animali. Tra essi quello denominato di sos Baiolos che conduceva alla periferia del vicino centro di Ossi, così come un sentiero conduceva verso Florinas: su caminu ezzu Fiolinesu, ed altri: «caminos publicos que falan dae sa idda de Cargegue a Sanctu Pedru», come descritto da una fonte seicentesca.

P.S. Per questo lavoro sono stati una preziosa fonte di ispirazione gli studi dell'architetto Marco Cadinu, docente presso l'Università di Cagliari, reperibili al seguente indirizzo:
unica.academia.edu/MarcoCadinu



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