mercoledì 13 dicembre 2023

Storie di Cargeghesi

 

a cura di Giuseppe Ruiu



Tempo fa venni a conoscenza circa l'esistenza di un cargeghese trapiantato a Roma fin da giovane età, grazie a una sua discendente: Rosanna Castangia, la quale mi raccontò le vicende del suo prozio il dentista Michele Pòddine. 

Nato a Cargeghe nel 1868 dal sassarese Antonio Pòddine e dalla cargeghese Baingia Merella, i quali ebbero anche altri quattro figli maschi: Francesco, Antonio, Leonardo e Simone. Famiglia di impiegati pubblici che si estinse dal paese entro la metà del XX secolo.

Il giovane Michele Pòddine, sotto l'ala protettrice del padrino di battesimo l'avv. don Michele Corda Solinas di Borutta (ma di madre cargeghese), ebbe la possibilità di effettuare tutti gli studi in Roma fino al conseguimento della Laurea in Medicina.


Fotografia del dott. Michele Pòddine 
(per gentile concessione di Rosanna Castangia)


Risiedette in via Nazionale n. 100 svolgendo la professione di dentista sempre a Roma in via Tre Cannelle n. 24 e in via Nazionale n. 54 dove ebbe un “gabinetto dentistico”, avendo tra i suoi più illustri pazienti, secondo i ricordi di famiglia, il vate Gabriele D'Annunzio con il quale strinse un rapporto di reciproca stima.


Pubblicità che reclamizza l'attività dentistica del dott. Pòddine 
sul quotidiano "La Nuova Sardegna" dell'aprile 1913


Fu inoltre membro fondatore dell'Associazione dei Sardi a Roma, composta da illustri personalità tra le quali la scrittrice Grazia Deledda, il professor Ettore Pais, Il senatore Giampietro Cocco-Ortu, il deputato Ottone Baccaredda ed altri... A tutti gli effetti il primo circolo dei Sardi costituitosi fuori dall'isola. Proprio con la scrittrice premio Nobel Grazia Deledda, sempre secondo la tradizione di famiglia, strinse anche con essa un duraturo rapporto di amicizia.



Convolò a nozze nella capitale nel maggio del 1913 con la cantante lirica Giulia Caterina Sbaragli. La coppia ebbe un unico figlio: Giorgio Pòddine (Roma, 22/12/1913) che in seguito intraprese anch'esso gli studi universitari in Medicina divenendo un brillante pediatra presso l'ospedale Bambin Gesù. Egli a Roma, negli anni Settanta, faceva parte del Centro Nascita Montessori (CNM), poi primario al Policlinico dell'Università romana. Ebbe due figlie come uniche eredi.

Nel giugno del 1916 il dott. Michele Pòddine venne nominato dal re Vittorio Emanuele III, cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia. Presiedette inoltre la Società Regionale di Mutuo Soccorso, fondata nel 1890, di piemontesi, liguri e sardi residenti a Roma.



Nel corso della sua esistenza non mancarono i contatti col paese natio e la Sardegna dove risiedevano fratelli e nipoti. Si spense a Roma nell'ottobre del 1964 a ben 94 anni di età.

Portare a conoscenza le vicende dei cargeghesi che si sono distinti nel corso della propria esistenza e che la memoria collettiva ha ormai pressoché rimosso è uno degli obiettivi di questo blog.

domenica 10 dicembre 2023

L'amore impossibile di Peppino Mereu

 

a cura di Giuseppe Ruiu


Il poeta e la ragazza

Tratto da: R. Manconi,“Vecchia Florinas”, Tipografia Stella Alpina, Novara, 1960, pp 111-116.


E adesso rievochiamo qui una storia che da sola basterà a illustrarci certi aspetti del costume e del carattere della nostra vecchia gente.

Giovanni Dore, nativo di Cargeghe, aveva trasportato da giovane i suoi penati in Florinas, menandovi per moglie una delle più belle e virtuose ragazze, Giovanna Maria Fois, in tutto degna d'elogio che i romani facevano alle loro migliori donne: domi mansit, lanam fecit.

Infatti il fuso e la rocca furono i suoi compagni inseparabili fino alla tarda età, fatta di giorni pieni di ricordi e di silenzi.

Agricoltore e soprattutto mugnaio, Giovanni Dore aveva qualcosa di suo al sole e conduceva due mulini ad acqua: uno in Briai (regione di Ossi - ndc) e l'altro in s'Iscia (regione di Cargeghe - ndc).

I vecchi mulini di Florinas e degli altri nostri paesi! Esercitavano un ruolo fondamentale nell'economia locale e costituivano una nota di colore nel quadro della vita paesana. A essi portavano il grano asinelli che sparivano sotto il carico dei sacchi o cavalle che poi rimanevano in attesa, scalciando per difendersi da mosche e da tafani.

L'acqua gorgogliava nelle gore e scosciava sulle pale delle ruote, e dopo il polverone e l'arsura del cammino sembrava più fresca, più preziosa proprio come un magnifico dono di Dio. Il gemere delle mole e lo stridere delle tramogge si univa al cicaleccio delle donne e alle strida dei piccoli, interpuntati ogni tanto dal suono del campanello che annunciava la fine di una macinata.

I molini costituivano un centro di raccolta e di smistamento di notizie, e perciò fungevano, per così dire, da agenzie locali d'informazione. Infatti costituivano il luogo ideale dove ogni comare che aveva da dire la sua circa fatti che la riguardavano da presso o da lontano poteva improvvisare qualcosa di simile alle moderne conferenze stampa innanzi alle compaesane pronte a fungere nel paese da gazzette parlanti.

Poi, con l'arrivo dell'energia elettrica, addio vecchi mulini ad acqua!

Addio ruote verdi di muschio! E addio quadretti di vita paesana sotto il pulviscolo bianco che si levava dalle macine a incipriare ogni cosa.

Adesso qualcuno di quei mulini, solitario e diroccato, , dalle finestre senza impannate sembra guardare con desolata fissità al passato.

Ma torniamo a Giovanni Dore. Il suo matrimonio con Giovanni Maria Fois era stato allietato da cinque figlie: Lucia, Maria Domenica, Giovanna Maria, Maria Simona, e Franceschina, che gli crescevano in casa come virgulti intorno alla quercia, per usare una similitudine biblica, e di cui si sarebbe potuto dire che erano cinque in una, tale era in esse la fusione dei cuori e delle menti. Dacché mondo è mondo, cinque figlie hanno sempre costituito un problema, e spesso un grattacapo, per qualsiasi padre; ma questo non era il caso di Giovanni Dore, che tra l'altro, in fatto di pedagogia, doveva avere poche idee, ma molto chiare.

Sua figlia Maria Domenica era appunto giunta all'età in cui allora una bella ragazza incominciava a dar da fare ai giovanotti con le serenate sotto il balcone, quando in Florinas comparì per ragioni di servizio Giuseppe Mereu, un giovane destinato ad accrescere il patrimonio isolano della poesia dialettale.

Giuseppe Mereu era nato in Tonara nel 1872, vi aveva frequentato le scuole elementari e, rimasto orfano e privo di mezzi, si era arruolato nell'Arma dei carabinieri, seguendo l'esempio di tanti altri giovani sardi che per sottrarsi alla vita dei campi non avevano (e non hanno tutt'oggi) altra scelta se non quella di mangiare «su pane de su Re». Così egli era venuto a capitare in servizio alla stazione dei carabinieri in Codrongianos (che sovrintendeva oltre al territorio di Codrongianos anche quelli di Florinas e Cargeghe - ndc). Come poeta dialettale egli era destinato a un bel successo e le sue poesie vengono stampate e diffuse tuttora anche a opera di venditori ambulanti perfino nelle fiere e mercati dell'isola.

All'allievo delle muse sarde sotto la lucerna del carabiniere non fu molto difficile attirare l'attenzione della ragazza e farle capire che il Cupido delle sue poesie aveva per lui dato fondo a tutti i dardi della faretra.

Giuseppe Mereu era tutt'altro che male come uomo, e come in tutti i poeti degni di rispetto, anche in lui traspariva quel non so ché di malinconico, quella spiritualità interiore che è il segno e il suggello di un dono negato agli altri, inoltre era un carabiniere; e qui occorre spiegarsi.

Erano quelli i tempi in cui quando una pattuglia di carabinieri, nelle sue perlustrazioni o nei giri di ronda, andava a bussare a un uscio, alla domanda fatta dall'interno: «Chi est?» si rispondeva: «Su Re!». Al che si replicava: «Bene 'ennidu su Re!». Ma nella psicologia dei nostri vecchi non tutto correva liscio riguardo all'Arma. Essa rappresentava il Re, al quale andava l'indefettibile ossequio dei sudditi, ma rappresentava anche la legge: una legge che spesso, al vaglio degli interessi personali, assumeva l'evidente configurazione dell'ingiustizia.

Quindi ossequio al Re, ma alla larga dai rappresentanti della Legge!

Questo per gli uomini. Per le donne invece era un'altra faccenda, dato che nel passato esse avevano sempre un debole per tutte le uniformi, procedendo in parallelo la loro scala sociale e l'ordine della gerarchia militare. Allora un carabiniere a cavallo, con tanto di sciabola e di pennacchio e di cordelline, si portava via i cuori di tutte le ragazze di un paese.

Bell'uomo, e poeta in uniforme, Giuseppe Mereu aveva quindi numeri più che sufficienti per far breccia nel cuore della ragazza. Incominciò così tra lui e lei una «corrispondenza d'amorosi sensi» che, dati i costumi del tempo, non andava al di là delle occhiate furtive nell'ombra della chiesa o dal balcone. Quando poi, grazie all'assenza di occhi indiscreti, ci scappava anche qualche sorriso o qualche rapido cenno, allora era giornata di festa, di quelle da far scoppiare il cuore dalla gioia.

I due innamorati non avevano perplessità circa i propri sentimenti e le loro volontà; ma sentivano di navigare in un mare di dubbi quando pensavano rispettivamente al proprio padre e al futuro suocero. Come l'avrebbe presa egli? E se avesse detto recisamente: no? Che guai allora! In casa ogni suo parere era un ordine tacito, e in famiglia la sua volontà era legge. I guai purtroppo non tardarono, dato che tosse e amore non possono nascondersi a lungo, e incominciarono col fatto che Giovanni Dore avesse istintivamente in antipatia i rappresentanti della Benemerita e che un genero carabiniere, anche se poeta, non rientrava affatto nei suoi ideali. Non dimentichiamo che, in quel tempo, i carabinieri condividevano con i marinai la fama di essere specialisti nell'arte di corteggiare le ragazze, collezionando fidanzate ovunque. Forse dovettero influire anche le sue considerazioni sull'autorità paterna, sull'obbedienza e la confidenza filiale, eccetera, a farlo andare sulle furie appena, messo sull'avviso, ebbe dalla figlia la sincera confessione dell'avvio preso dalla faccenda.

Nella casa di Giovanni Dore scoppiò una tempesta che investì tutte le donne, le quali attesero in silenzio che tuoni e fulmini dileguassero.

Come Dio volle, la tempesta si acquietò, ma in un silenzio che non presagiva niente di buono. Infatti, di lì a poco, la colpevole fu chiamata a sentire la punizione che le aveva inflitta: la segregazione a tempo indeterminato nel mulino di Briai, sotto la sorveglianza di una zia.

Seduta stante il padre montò a cavallo e s'avviò verso Briai, seguito dalla figlia che camminava a piedi, scalza per maggior punizione. I lettori non avranno difficoltà a immaginare quella scena e che cosa passasse quel giorno nel cuore di quella figlia così sottomessa.

Il poeta carabiniere precipitò in una autentica disperazione, e per la sua bella segregata chiese soccorso a Dio e per se a tutte le Muse, questa volta chiamate da lui a piangere sinceramente sulle sventure d'amore e assai più del consueto. Ma per lui era impossibile vivere senza nemmeno vedere i luoghi dove la sua bella era stata confinata, seguendo un costume che ricordava quello descritto in certe novelle medioevali, in cui inflessibili genitori chiudevano in castelli o torri le figlie di cui volevano impedire i non graditi amori. Per ciò, quando era libero dal servizio, egli usciva dalla caserma e poi via, per costoni e scorciatoie impossibili, fino a una cima da dove si vedeva il mulino fatale. Là, su quella cima, l'innamorato sostava quasi in contemplazione, in compagnia delle muse, e pur nella sua pena giungeva quasi a sentirsi felice. Di capitare ogni tanto al mulino, magari col plausibile pretesto del servizio e in compagnia di un commilitone, non c'era neppure da pensarlo per non aggravare di più la situazione.

Però quelle passeggiate diurne non bastavano a soddisfare il cuore del giovane, così ch'egli prese a farne anche delle notturne, sempre per raggiungere quella tal cima da dove magari veder trasparire dal mulino qualche luce che gli desse come una visione dell'amata. Quelle passeggiate, considerando il loro percorso, costituivano già una bella impresa di giorno; immaginiamoci poi di notte, se per giunta non vi era chiaro di luna. E non si dimentichi il rischio di una punizione esemplare da parte dei superiori per l'infrazione fatta ai regolamenti.

Purtroppo il destino aveva deciso di servirsi dell'amore per giungere ad abbreviare gli anni di Giuseppe Mereu. In una notte piena dell'oscurità più densa, egli, nel guadare un torrente alla volta di quella cima, accaldato com'era scivolò e cadde nell'acqua infradiciandosi fino al midollo. Quel bagno involontario fu per lui la causa di una ostinata infreddatura dalla quale poi, per trascuratezza del giovane e per imperizia dei medici, doveva originarsi una tisi inguaribile.

Intanto il parentado della ragazza, coalizzatosi in difesa dei due innamorati, riuscì a spuntarla e a far recedere Giovanni Dore dalle sue decisioni. Egli chiamò allora un suo servo pastore e gli ordinò di recarsi a Briai per dire alla figlia di tornare a casa, essendo stata perdonata. Il resto si sarebbe deciso in seguito. Il servo recò l'imbasciata ma con suo stupore si sentì domandare: «Che segno certo ho io che veramente è volontà di mio padre che io faccia ritorno a casa?»

Il servo ritornò indietro, forse facendo in cuor suo chissà che commenti, e riferì.

«Bene!» - disse allora Giovanni Dore, togliendosi di tasca il grande orologio d'argento di cui andava particolarmente fiero – Prendi questo, e dì a mia figlia che venga a riportarmelo». E così fu fatto.

Se la prima parte di questa storia è molto romantica, la seconda invece è molto malinconica.

Tutti consenzienti, i due giovani si scambiarono in forma non ufficiale la promessa di matrimonio; ma la tisi aveva preso a fare rapidi progressi nel giovane, che passò in cura nell'infermeria presidiaria di Sassari e nell'ospedale militare di Cagliari e infine venne dimesso dall'Arma.

Con ciò finirono anche i sogni e le speranze dei due innamorati. Lui sciolse lei da ogni impegno e si ritirò nella nativa Tonara ad attendervi la fine. Della corrispondenza intercorsa tra i due si conservano ancora fino a qualche anno fa alcune lettere e diverse liriche amorose, scritte in italiano o in dialetto, e rimaste inedite.

Lui si avviò al compimento del suo destino col travaglio spirituale che traspare dalla raccolta delle sue liriche, pubblicate nel 1897 a cura di un caro amico, e morì nel 1901. Lei, chiusa nel rimpianto, dopo aver respinto per dieci anni ogni altra richiesta di matrimonio, aderendo alle pressioni dei parenti passò alla fine a nozze, ma era stabilito che anche per lei la vita doveva essere breve. Morì infatti il giovedì santo del 1918 in Florinas, dove dalla città in cui era andata ad abitare era rientrata per venire assistita nel male inesorabile che l'aveva colpita, e volle essere sepolta vestita del costume con cui era andata sposa all'altare. Forse, il giorno dopo le sue esequie, le campane di Florinas e di Tonara presero a squillare insieme nell'alleluia pasquale.



Biografia di Peppino Mereu da: «Ichnussa. Progetto di pubblicazione e divulgazione libera della grande poesia in lingua sarda».


La medesima vicenda descritta nel presente lavoro, tratta sempre da: «Ichnussa. Progetto di pubblicazione e divulgazione libera della grande poesia in lingua sarda».

La bella di Florinas fu l’unica donna amata dal poeta

A Tonara, fino a domani, la tre giorni dedicata al poeta Peppino Mereu: Domenica, poesia per l’amore perduto.

Si pro casu unu paccu sigilladu agatades, domando, pro favore, non siat su sigillu profanadu./Cuntenet un’istoria de dolore: sunu litteras d’un’isfortunada, dulche poema d’unu veru amore./(…)/De cuss’amore nde tenzo sa morte, a’ s’ora de sa vida sa pius bella. Ah! Decretu fatale e dura sorte!/ Tue, in battor muros de una cella, ses pianghende e preghende in segretu, pover’isconsolada verginella!

Florinas. Maria Domenica Dore aveva trentatré anni e nessuna luce negli occhi il giorno in cui si rassegnò a sposare un uomo che non amava. Per due lustri, dopo la fine del suo grande amore, aveva vissuto reclusa in casa, come una monaca: mai più una festa, mai più un’uscita in campagna con le sorelle, mai neanche l’accenno di un sorriso. Leggeva e rileggeva le lettere che conservava in un cassetto, accarezzava i fiori di campo essiccati che lui - in quei pochi mesi di gioia che Dio concesse al loro sentimento - le aveva spedito in mezzo ai foglietti delle poesie, pregava senza più speranza. Un giorno d’inverno del 1909 sposò Antonio Michele Manconi, brav’uomo del paese con uno stipendio di guardia carceraria e una vita sacrificata da una città all’altra. Solo il primo figlio, Lorenzo, nacque a Florinas, gli altri due - Giovannico e Mariuccia - a Cagliari e a Oristano. Ebbe un poco di gioia soltanto dai suoi bambini, e quando morì - a quarantadue anni, il Giovedì santo del 1918 - le zie consolarono gli orfani, i compaesani fecero le condoglianze al vedovo e tutti dissero che Maria Domenica Dore, in fondo, era già morta il giorno in cui lei e Peppino Mereu avevano rotto la promessa di matrimonio.

«Era un bel giovane. Alto, slanciato, portava con eleganza la divisa dei carabinieri a cavallo. Fin da bambina, qui in casa, ho sempre sentito parlare di Peppino Mereu e di zia Domenica. Per anni, in famiglia, abbiamo conservato le lettere che lui le scriveva. Le custodiva zia Gavina Luigia Carboni, la sorella di nonno: gliele aveva consegnate zia Domenica prima di sposarsi. “Tienile tu, sono la cosa più cara e preziosa che ho”, disse. Per tanto tempo vennero tenute come reliquie, ma poi purtroppo sono andate perse durante un trasloco». Domenica Carboni ha 86 anni, lo stesso nome della sfortunata zia e gli stessi tratti dolci del viso. Nel soggiorno della casa di Florinas le foto di questa grande famiglia di donne sono incorniciate alle pareti e sui ripiani della credenza. C’è zia Gavina Luigia, la sorella del nonno paterno, che cercò sempre di aiutare i due innamorati di questa storia; c’è Maria Domenica, bella come un’attrice del cinema muto; ci sono le sue quattro sorelle (lei era la secondogenita) Lucia, Giovanna Maria, Maria Simona («che era mia madre») e Franceschina. «Questa è una parte importante della storia della famiglia, ma le lettere, purtroppo, quelle non ci sono più». Già, le lettere. Nell’epica dell’amore sfortunato tra Peppino Mereu e la figlia del mugnaio Giovanni Dore, restano un mistero mai svelato. Perdute chissà come quelle scritte dal poeta; mai ritrovate - invece - quelle che gli spedì l’innamorata, le stesse che Mereu, poco prima di morire, sistemò dentro una scatola assieme al ritratto della mamma e alla fotografia di Maria Domenica, l’unica donna che abbia mai amato.

Giuseppe Mereu aveva appena vent’anni quando, nel 1892, arrivò a Codrongianos per prendere servizio nella caserma dell’Arma. Si era arruolato nei Regi Carabinieri per sfuggire a un destino segnato come servo pastore o massaio appresso al giogo dei buoi, e intanto scriveva le sue liriche sognando di poterle pubblicare. Un giorno, mentre passava a Florinas assieme a un commilitone, incrociò lo sguardo di Maria Domenica Dore e da allora, tra lui e la figlia del ricco mugnaio del paese, nacque un amore fatto di cenni del capo, occhiate furtive, sorrisi discreti. «Zia Fois, la sorella della mamma, sapeva di questo sentimento e cercava di aiutare la nipote. I guai però - racconta Domenica Carboni - cominciarono quando il padre, Giovanni Dore, scoprì tutto. Lui, come tanti a quel tempo, era convinto che i carabinieri fossero uguali ai marinai, pieni di fidanzate in ogni paese. “Senti”, gli diceva zia Fois, “perché non chiedi al maresciallo oppure a qualcuno di Tonara di che famiglia è questo ragazzo?”, ma lui non voleva sentire e, per tutta risposta, decise di allontanare la figlia e rinchiuderla nel mulino di Briai , lontano dal paese, sorvegliata a vista da zia Fois». Peppino Mereu, disperato, cominciò a fare avanti e indietro - a piedi, qualche volta pure di notte - per poter vedere la sua innamorata anche solo un minuto. «Alle volte zia Fois permetteva anche che si scambiassero qualche parola, ma niente di più: quelli erano tempi in cui una ragazza doveva conservarsi casta e pura». Una notte, mentre andava al molino, scivolò nel fiume. «È da allora, dicevano le mie zie, che Peppino Mereu cominciò a stare male». Intanto Giovanni Dore venne a sapere, da alcuni venditori di castagne di Tonara, che quella del giovane carabiniere era una famiglia rispettabile e onorata, «sicché si decise a dare il suo consenso e a far rientrare la figlia a casa. Purtroppo, però, i due innamorati non hanno visto un’ora buona. Peppino Mereu, dopo quella brutta infreddatura nel fiume, si ammalò gravemente di tisi, venne ricoverato nell’ospedale militare di Cagliari e subito congedato dall’Arma». Fu così che, proprio perché malato e senza più la possibilità di mantenere una moglie, decise di sciogliere la promessa di matrimonio. Tornò a Tonara, dove morì nel 1901, mentre Maria Domenica Dore - confinata nella sua casa di Florinas - per anni visse nel ricordo di quell’amore sfortunato. «Per più di dieci anni fece una vita di clausura. “Perché non esci?”, le chiedeva il babbo, e lei rispondeva: “E dove vado, a vedere Peppino?”». Alla fine dovette cedere alle pressioni del padre, «che la voleva vedere sistemata: a quel tempo una donna doveva avere un marito», e sposò Antonio Michele Manconi. Fu una moglie devota, e per i suoi tre bambini una mamma dolcissima. Quando, tanti anni dopo, il primogenito Lorenzo scrisse un libro dedicato al paese, Vecchia Florinas , dedicò un intero capitolo all’amore tra sua madre e il poeta di Tonara. «Mamma - confidò Lorenzo Manconi - mi raccontava sempre di quel sentimento che portava nel cuore. Ero un bambino, ma lei voleva che sapessi. Mi diceva: “Ascolta, figlio mio, ascolta. Questa è stata tutta la mia vita”». PIERA SERUSI


Descrizione del mulino di Briai da: «Mulini di Sardegna a cura di Giuseppe Piras». 

sabato 30 settembre 2023

Il gonfalone comunale di Cargeghe: cronotassi dei baroni di Ploaghe e altre considerazioni

 

di Giuseppe Ruiu


L'araldica è lo studio di blasoni e stemmi che in gergo prendono anche il nome di armi o scudi. La disciplina che ha dunque lo scopo di riconoscere, descrivere e catalogare gli elementi grafici per identificare in maniera univoca persone, famiglie e altri sodalizi umani.

Al suo interno l'araldica civica è quella specifica branca applicata a stemmi e gonfaloni dei comuni e delle città e più in generale degli enti istituzionali.

La descrizione di ogni stemma comunale è riportata sullo Statuto dell'ente di appartenenza, dove viene inoltre descritto l'iter della sua approvazione ufficiale.

L'articolo 4 dello Statuto comunale di Cargeghe così recita: «Stemma e gonfalone. 1. Il Comune negli atti e nel sigillo s'identifica con il nome di Cargeghe. 2. Lo Stemma del Comune è stato approvato con Decreto del Presidente della Repubblica n. 4411 del 19 luglio 1988 registrato alla Corte dei Conti il 25 novembre 1986 e trascritto nel Registro Araldico dell’Archivio Centrale dello Stato il 12 gennaio 1987. Lo stemma è così descritto: “inquartato in decusse: nel primo, d’azzurro, alla fontana d’oro, zampillante

d’argento, alla torre di rosso, murata, chiusa e finestrata di nero, merlata di tre alla guelfa; nel terzo, di rosso, alla clessidra d’oro; nel quarto, d’oro, alle tre pecore d’azzurro, la centrale di fronte, le laterali in profilo, pascolanti sulla pianura di verde. Ornamenti esteriori da Comune”.»


Stemma del Comune di Cargeghe

Il rebus dello stemma dell'ente cargeghese risulta essere abbastanza semplice nella lettura dei simboli che lo compongono, dove nel primo quarto la fontana zampillante rappresenta la ricchezza delle acque e sorgenti che da sempre hanno caratterizzato il territorio comunale e che hanno sempre reso il paese autonomo dal punto di vista idrico grazie alle principali sorgenti di Magòla e Ortos.

Il secondo simbolo è costituito dalla torre rossa murata e merlata alla guelfa, che per chi abbia discrete conoscenze di storia sarda non può che riconoscervi l'emblema del Giudicato di Torres (anticamente il Logu de Ore) il regno medievale indipendente che governò i territori del nord Sardegna dall'alto al basso medioevo.

Cargeghe fece parte del Giudicato fino alla sua dissoluzione nella seconda metà del XIII secolo, ricompreso nella curadoria (le divisioni amministrative giudicali) del Figulinas per poi passare sotto la giurisdizione amministrativa dei territori sardi del casato tosco-ligure dei Malaspina che nel Logudoro insieme ai sardo-genovesi Doria si spartirono l'ex Giudicato turritano.

Ulteriore simbolo sono gli armenti al pascolo a chiarire quale sia stata l'attività lavorativa più caratterizzante il territorio con i suoi pascoli e le dolci colline: la pastorizia, l'allevamento del gregge dalla notte dei tempi maggiore sostentamento per la comunità.

Volutamente ultimo simbolo descritto è la clessidra d'oro a rappresentare l'emblema araldico della famiglia nobile sarda, ma di origine iberica, dei Santjust di Teulada che secondo tale riconoscimento nello stemma comunale avrebbe amministrato dal punto di vista feudale Cargeghe fino alla dissoluzione del sistema feudale con il riscatto dei feudi nel XIX secolo.

A questo punto è doveroso fare una digressione storica sull'avvicendarsi delle famiglie feudali a Cargeghe per specificare che i Santjust di Teulada mai ebbero alcun ruolo amministrativo in merito alla Baronia di Ploaghe sotto la quale Cargeghe venne ricompreso e i cui baroni furono anche signori feudali del paese, pertanto la presenza del loro blasone araldico, la clessidra d'oro, nello stemma dell'Amministrazione civica è del tutto arbitraria e ingiustificata.



Nel convulso periodo, XIV secolo, della guerra permanente tra il regno catalano-aragonese contro l'autoctono Giudicato d'Arborea e i potentati dei Doria e dei Malaspina nel nord Sardegna, Cargeghe come detto ricadde sotto la giurisdizione dei Malaspina che con alterne fortune si protrasse per un dato periodo fin quando vennero scacciati dai loro territori dai catalani che crearono i feudi (la Baronia d'Osilo ad esempio) e li assegnarono alle proprie famiglie nobili che sovvenzionarono la conquista della Sardegna altrimenti alle élite sassaresi che parteggiavano per i nuovi conquistatori.

In questo gioco di alleanze e tradimenti Cargeghe venne infeudata a vari personaggi che lasciarono ben poche tracce fin quando comparve il mercante e cavaliere sassarese (secondo alcuni notaio di origine catalana o corsa)

Serafino de Montañans (Montanyans, Montagnans, Montagnano) che venne riconosciuto dal sovrano iberico, per meriti acquisiti sul campo di battaglia ed economici, signore feudale di Cargeghe. Egli avendo acquisito alcuni villaggi del territorio alle porte di Sassari verso la prima metà del XVI secolo venne creato barone della costituenda Baronia di Ploaghe sotto la quale, come già detto, ricadde Cargeghe fino al riscatto dei feudi in epoca sabauda. A Serafino succedette il figlio:

Serafino II de Montañans, 2° barone dopodiché la Baronia passo alla figlia Giovanna la quale sposò:



don Francisco de Castelvì dei visconti di Sanluri e marchesi di Laconi che amministrò la Baronia come 3° barone in vece della moglie. Il loro figlio primogenito:

don Gerolamo de Castelvì y Montañans, agli albori del XVI secolo divenne il nuovo feudatario, 4° barone (1503), segnando il passaggio del feudo dagli estinti Montañans ai potenti Castelvì, che ebbero un ruolo di primo piano in numerose vicende della storia sarda. Senza discendenti maschi diretti il feudo passo alla figlia primogenita:

donna Anna de Castelvì y Flors (Alos), 5ª baronessa (1535), che sposò don Federico di Cardona alla cui morte succedette il figlio primogenito:

don Gerolamo (Geronimo) Folch de Cardona y Castelvì, 6° barone, che avendo avuto un solo figlio maschio:


Lastra tombale nel duomo di Alghero di don Gerolamo (Geronimo)Cardona y de Castelvì 6° barone di Ploaghe e della moglie donna Elena de Alagon (1568)


don Gioacchino Folch de Cardona y de Alagon gli succedette nel feudo ploaghese come 7° barone.

Don Giaocchino non avendo avuto eredi diretti, alla sua morte nel 1590 lasciò il feudo alla moglie donna Caterina de Alagon, ma il Fisco regio pretese la devoluzione del feudo in assenza di eredi diretti.

Contro la pretesa del Fisco fecero opposizione la vedova donna Caterina e altri nobili affini al Cardona suoi parenti. Alla fine, nel 1594, dopo causa al Fisco e successiva transazione tra le parti, venne investito nei feudi:

don Giacomo de Castelvì y Castelvì 4° conte, poi elevato a 1° marchese di Laconi e 8° barone di Ploaghe. Prima voce dello Stamento militare e personaggio di assoluto rilievo della Cagliari tra cinquecento e seicento. Gli succedette il figlio primogenito avuto dalla moglie donna Anna Aymerich:

Don Francisco de Castelvì y Aymerich, 8° visconte di Sanluri, 9° barone di Ploaghe e cavaliere di Santiago (1600). Sposò la vedova donna Caterina de Alagon e in seconde nozze la nobildonna siciliana donna Francesca Lanza y Jueni dei principi di Trabia dalla quale ebbe dieci figli. A ereditare la baronia di Ploaghe come 10° barone fu il figlio secondogenito (essendo il primogenito Giacomo Ottavio morto all'età di due anni):

don Lussorio Antioco de Castelvì y Lanza, (3° marchese di Laconi e 10° signore della baronia di Ploaghe) il quale sposò nel 1631 la cugina di primo grado donna Agostina de Castelvì, ma morì solo pochi mesi dal matrimonio lasciando la vedova in attesa di una figlia che morì poco dopo il parto. Subentrò nei feudi il fratello minore:

don Giovanni Battista de Castelvì y Lanza, (11° barone). Sposò in prime nozze la madrilena donna Isabella de Alagon y Roig figlia di don Ilarione marchese di Villasor, e in seconde nozze donna Francesca Borgia senza avere figli da entrambe. Morì nel 1653 (o nel 1660?) lasciando i feudi a un ulteriore fratello minore:

don Agustin de Castelvì y Lanza (12° barone) indiscusso protagonista della lotta tra fazioni della Sardegna barocca, prima voce dello Stamento militare e secondo alcuni “Padre della Patria” per avere difeso alla Corte di Madrid i privilegi della nobiltà sarda autoctona. Sposò Stefania Giovanna Dexart (Dejar). Nel 1668 venne assassinato da ignoti sicari. Successore fu il figlio:

don Giovanni Francesco de Castelvì y Dexart, 6° marchese di Laconi 13° barone di Ploaghe, grande di Spagna di 1ª classe. Morì senza eredi e si aprì la successione ai feudi che furono assegnati alla nipote

donna Maria Caterina de Castelvì y Sanjust settima marchesa di Laconi e 14ª baronessa di Ploaghe. Morì senza eredi in vita dunque i feudi furono assegnati al nipote:




don Ignazio III Aymerich y Brancifort (1735-1820) 6° conte di Villamar, 13° visconte di Sanluri, 8° marchese di Laconi, 15° barone di Ploaghe, signore di Stunnu, Crastu, Lionesu, Riutortu e Montis de Ledda. Grande di Spagna di 1a classe, prima voce dello Stamento Militare. cavaliere di gran croce dell'ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Sposò donna Maddalena Zatrillas y Manca Guiso. In questo modo i feudi dei Castelvì passarono defintivamente agli Aymerich.

Don Ignazio IV Aymerich y Zatrillas, (1766-1827) ereditò i feudi paterni come 16° barone di Ploaghe. Egli sposò donna Giovanna Ripoll y Nin, dei Marchesi di Neoneli.

Il 10 Luglio 1839 gli furono riscattati i feudi di Laconi, Sanluri e Ploaghe per un valore complessivo di 366.315 lire, corrispondente a una rendita di 18.315 lire annue.




Al di là del titolo baronale tali feudatari mai ebbero modo di risiedere stabilmente (e forse nemmeno visitarono) nel palazzo baronale di Ploaghe oggi non più esistente, e men che meno nei vari villaggi della Baronia dove si facevano rappresentare da procuratori locali.

Solo attraverso questo noioso ma doveroso succedersi di feudatari è possibile comprendere appieno che il blasone raffigurante la clessidra dei Santjust rappresentato nello stemma dell'Amministrazione civica di Cargeghe risulti essere completamente fuori luogo.

Si sarebbe dovuto prendere in considerazione a suo tempo invece il blasone dei Castelvì che per maggiore tempo ressero la Baronia di Ploaghe o magari quello dei Montañans fondatori della stessa oppure ancora quello degli Aymerich che la condussero fino al riscatto dei feudi sardi nel 1839.

Meglio ancora sarebbe, anziché sostituire un blasone nobiliare con un altro, prendere a modello un altro simbolo rappresentante con più efficacia simbolica il territorio cargeghese come ad esempio le caratteristiche e millenarie spirali neolitiche raffigurate in una domus de janas delle campagne del paese.



Raffigurazione delle spirali nella tomba IV a domus de janas della necropoli di S'Èlighe Entosu


Fonti

I feudi di Ploaghe e Cabu Abbas (Giave e Cossoine), Cargeghe e Codrongianus

Castelvì linea dei signori di Sanluri e di Laconi

Laconi. Le epoche feudali e le famiglie nobili

Albero genealogico della famiglia Aymerich

Famiglia Alagon

Famiglia Cardona

Bruno Anatra, Treccani: Castelvì Agostino