giovedì 17 ottobre 2024

"Il luogo roccioso della pietra calcarea". Etimologia del toponimo Carieke-Cargeghe

 

di Giuseppe Ruiu





L'individuazione e la ricostruzione degli etimi, ossia dell'intimo significato delle parole, prende il nome di etimologia. Una disciplina che studia l'origine e la storia delle parole, che ne analizza l'evoluzione fonetica, morfologica e semantica. Una delle branche più suggestive è lo studio linguistico dei toponimi: dei nomi di luogo, attraverso il quale è possibile risalire al significato originario del nome di un luogo.

Già in passato ci si è occupati di cercare di interpretare l'etimologia del toponimo del paese di Cargeghe, al seguente link è possibile leggere l'articolo: Riflessioni sul toponimo medievale Carieke

Uno studio di oltre dieci anni fa che oggi alla luce di nuove acquisizioni presenta alcune forzature, seppur rimane tesi suggestiva quella di legare il nome di Cargeghe (Carieke) a quella di uno dei suoi Santi patroni: Quirico (Kyrikos). Non di meno appaiono forzate le altre teorie etimologiche che identificano nel nome di Cargeghe un luogo ricco di ciliegi (Miglior e Pittau) e una non meglio precisata città allegra e festiva (Spano). Sempre il Pittau considera anche che possa essere connesso, per una comune origine indoeuropea, al latino Caries «corrosione, disfacimento, materiale in disfacimento» con suffisso protosardo -èk- e con significato di “Sito rovinoso”.

Per una corretta interpretazione in merito all'origine etimologica del toponimo, non si può prescindere dalla grafia più antica del medesimo presente sui documenti storici più antichi, e dunque non è possibile attribuire una etimologia al toponimo CARGEGHE (in lingua sarda CARZEGHE, pronuncia in logudorese settentrionale CAXEGHE, sassarese CAGLIÈGGA) senza risalire al suo etimo più antico: CARIEKE, presente sui Condaghes e precisamente in una scheda del Condaghe di San Pietro di Silki:

24. Parthitura. De seruis.

EGO prebiteru Petru Iscarpis, ki parthibi cun prebiteru Gauini Pithale a ffiios de Istefane de Nussas e de Maria de Funtana, ki furun de scu. Petru de Silki, e de scu. Petru de Carieke. A Justa, et a Bona, et at Elene, leuaitilos scu. Petru de Silki; et a Migali, et a Petronella et a Barbara, et a Petru leuaitilos scu. Petru de Carieke”.

Dal primigenio toponimo è possibile risalire attraverso la sua evoluzione fonetica all'attuale nome dell'abitato: Carieke, Carjeke, Cargeke, Cargeghe, Carzeghe (Caxeghe). Nel corso dei secoli in relazione alle dominazioni subite dai sardi il nome ha avuto alcune modifiche grafiche o errori di trascrizione riportate su documentazione storica come: Cargegue, Cargeque, Carjeke, Cargegi ecc.

In tutta evidenza si è di fronte a un toponimo paleosardo, ossia derivante dalle lingue parlate nell'isola prima della latinizzazione linguistica conseguente alla conquista dell'impero romano, in quanto Carieke pare non avere alcuna corrispondenza con la lingua latina.

Esso è composto da una radice -CAR(I)- e da un suffisso -EKE-.

Il paleosardo, secondo alcuni linguisti è da mettere il relazione con il sostrato nuragico di tale epoca, forse di origine preindoeuropea e più in generale di derivazione pan-mediterranea: gli uomini con le loro merci viaggiavano in tutte le sponde di quel mare da oriente a occidente avendo la necessità di comprendersi l'un l'altro.

Individuata la matrice linguistica che ha generato il toponimo in esame, è necessario comprendere quale significato etimologico esprimesse in quella lingua. È necessario però abbinare a tale ricerca etimologica anche uno studio del territorio sul quale tale toponimo insiste: la sua geomorfologia, la morfologia del terreno, le sue caratteristiche litologiche, poiché molto spesso i toponimi, se molto datati, hanno una correlazione con le caratteristiche del territorio sul quale insistono.

Esso è costituito da una radice -Car(i)- e da un suffisso -Eke-. La radice è interpretabile come un sostrato indicante la pietra, la roccia: Car/Kar. Mentre il suffisso indica il luogo, il sito: Ek/Eke/Eki. Dunque CAR(I)EKE avrebbe il significato di:

Luogo roccioso della pietra calcarea”

Il territorio di Cargeghe esprime proprio questo significato, con gli altopiani rocciosi di Giorrè e Su Padru, costituiti da pietra calcarea. Le loro falesie bianco-giallastre e il sito impervio di Pedras Serradas con Sa Rocca 'e Mesudie, i cui nomi riportano sempre alla pietra e alla roccia, marcano visivamente questo territorio ai cui piedi è sorto il millenario abitato di Carieke-Cargeghe.


sabato 5 ottobre 2024

Antonio Maria Derudas: il più famigerato fuorilegge cargeghese

 

di Giuseppe Ruiu



In quasi ogni paese della Sardegna vi è il ricordo della presenza di qualche fuorilegge locale che in un dato momento storico impose la sua autorità banditesca, rimasto impresso magari per audacia, temerarietà e sfrontatezza verso l'autorità regia, o peggio per tutte quelle declinazioni che la criminalità impone, come l'efferatezza e la spietatezza.


La Domenica del Corriere, disegno di Achille Beltrame


Anche Cargeghe, seppur borgo socialmente tranquillo in quasi tutto il corso della sua lunga storia, ebbe i suoi banditi. A metà del 1800, epoca alquanto turbolenta dal punto di vista socio-politico in tutta l'isola, dovuta alle condizioni di vita molto dure e precarie, ai fermenti politici dovuti all'oscurantismo sabaudo e alle frequenti epidemie come il colera, il paese ebbe ben tre fuorilegge datisi alla macchia dopo aver commesso i propri delitti.

Antonio Maria Derudas, Giovanni Maria Puzzone e Angelo Masala, furono coloro che la tradizione rese tristemente celebri. Tra essi colui che ebbe miglior vocazione criminale fu certamente il Derudas, vuoi anche per aver avuto come compagno di latitanza per circa due anni il celebre Giovanni Tolu di Florinas (fu il sodalizio più longevo per il Tolu) che alla fine lo tradì - per non essere tradito - come egli stesso ebbe ad ammettere.

In questo breve articolo, riporteremo oltre ad alcune scarne note biografiche sul Derudas, il Puzzone e il Masala desunte dalle loro registrazioni di battesimo, soprattutto la descrizione che di essi ne fa sempre il Tolu nel suo celebre libro autobiografico pubblicato dallo scrittore sassarese Enrico Costa.

Antonio Maria Derudas, che nell'atto di battesimo presente sui registri parrocchiali di Cargeghe è registrato come Antonio Maria Ruda Soro, nacque in Cargeghe il 13 febbraio del 1833 da Salvatore Ruda (in altre registrazioni Deruda) Chighine di Cheremule e Gavina Maria “Baingia” Soro di Banari, entrambi dimoranti a Cargeghe.

La carriera criminale del Derudas (continueremo a usare il cognome così come riportato dal Tolu) ebbe una svolta decisamente efferata nel 1851 quando insieme al compagno Giomaria Puzzone (nelle registrazioni parrocchiali: Giovanni Giuseppe Maria Pugioni Fadda. Cargeghe 9 aprile 1830, di Antonio Pugioni di Maragolia e Maria Francesca Fadda di Thiesi). trucidarono sul sagrato della chiesa parrocchiale di Cargeghe il capitano dei barracelli.


Disegno di Achille Beltrame


Così viene riportata la vicenda sul libro del Tolu:

«Annoiato della mia solitudine, durata per oltre un anno, mi ero unito in quel tempo ai banditi Antonio Maria Derudas e Gio. Maria Puzzone, di Cargeghe; i quali battevano la campagna dopo l'assassinio del capitano dei barracelli, da loro freddato nel piazzale della chiesa del paese, mentre rincasava. (…) Ho già parlato dei due banditi Antonio Maria Derudas e Giovanni Maria Puzzone, di Cargeghe, datisi alla campagna dopo aver ucciso il capitano dei barracelli, che li disturbava nelle loro imprese rapaci. Questi giovani vagabondi erano ladruncoli che prendevano diletto a uccider buoi e cavalli, a danno del barracellato.» (…) Poco dopo l'uccisione del capitano, un altro giovine di Cargeghe – Angelo Masala – uccise certo Manconi, suo compaesano, e fuggì alla giustizia dandosi alla macchia. Si ebbero così, in breve tempo, tre banditi di Cargeghe.»

Sui registri parrocchiali si trova anche la registrazione di battesimo di quest'ultimo: Angelo Masala Merella. Cargeghe 18 luglio 1831, di Baingio Masala e Giovanna Merella entrambi cargeghesi.

«Il fratello dell'ucciso – Giovanni Manconi – volendo vendicarsi dell'assassino, chiese l'aiuto dei due banditi Derudas e Puzzone; e tutti e tre riuscirono a freddare con una fucilata Angelo Masala, che sotterrarono in campagna, senza che alcuno li vedesse.

Il prete Luigi Tolu di Cargeghe, mio cugino, un giorno si rivolse a me, pregandomi di proteggere il bandito Derudas, che voleva liberare ad ogni costo, ritenendolo un disgraziato, più che un cattivo soggetto. E fu dietro alle sue insistenti raccomandazioni, che mi decisi ad unirmi col Derudas e col Puzzone, coi quali rimasi per circa un anno, sebbene non di continuo.

Un giorno, insieme al Derudas, attraversavo il sito della Funtana de sa piarosa, di fronte alla cantoniera di Campomela, nel tenimento di don Battista Solinas di Cargeghe. A un certo punto il mio compagno si fermò, e, indicandomi una zolla, mi disse sorridendo:

- Vedi? Io, Puzzone e Manconi abbiamo qui seppellito il cadavere di Angelo Masala!

Trascorsi quattro o cinque mesi, il Puzzone fu arrestato; ed io continuai a tener compagnia al Derudas, separandomene però di tanto in tanto, poiché diffidavo di lui.»

Per il 1851 probabile anno nel quale venne trucidato il capitano dei barracelli, è presente nei registri parrocchiali una registrazione di morte violenta che tradotta recita:

«22 giugno 1851 Cargeghe. Costantino Colombo di Bonorva, come da quanto riferito dalle lettere del giudice ordinario, morì, come si scoprì dai segni rinvenuti, di morte violenta lungo la strada nella comunione della Santa Madre della Chiesa. Il suo corpo è sepolto nel cimitero. In fede Luigi Tolu pro parroco».

Sempre nei libri parrocchiali è presente anche la probabile registrazione di morte del Manconi per mano del Masala:

1 novembre 1853, Cargeghe. Pietro Manconi Marongiu celibe figlio del defunto Domenico e Antonia Maria di questo luogo, la sua età di circa ventiquattro anni, nell'agro, colto da morte violenta senza sacramenti, il suo corpo è sepolto nel cimitero. In fede Luigi Tolu pro parroco.

La criminale carriera del Derudas ebbe un epilogo quando Giovanni Tolu avendo la certezza di essere stato tradito dal Derudas e dalla moglie, architettò un piano per farlo cadere nelle maglie giustizia. È lui stesso a raccontarlo in un capitolo del suo libro dedicato proprio al Derudas.


Disegno di Achille Beltrame

«Nel territorio di Banari era il molino di proprietà della contessa Musso. Il mugnaio, che lo aveva in affitto, viveva in continui litigi colla propria moglie, poiché costei teneva seco una bambina illegittima, che turbava la pace domestica.

Tanto io, quanto il mio compagno Derudas, capitavamo con frequenza nel molino, e la moglie del mugnaio si sfogava con noi, mettendoci a parte dei disaccordi coniugali.

Un giorno che mi trovai solo con essa, la moglie inasprita mi raccomandò caldamente di liberarla dal peso del marito, uccidendolo.

Feci di tutto per smuoverla dal suo proposito:

– Metti giudizio, e sta savia! – le dicevo. – Non dar retta ai tristi consigli della tua coscienza. Fa la pace con tuo marito, e vivete tranquilli!

Il mugnaio era un buon uomo; ci dava ospitalità con piacere, e di tanto in tanto mi regalava qualche scudo. M’irritavano, dunque, gli eccitamenti di quella femmina, che ad ogni costo voleva diventar vedova.

Ma la donna è tenace ne’ suoi proponimenti di vendetta; e la moglie del mugnaio, vedendo la mia ripugnanza a compiacerla, mi lasciò in pace. Ella si rivolse segretamente al mio compagno, a cui offrì sessanta scudi per eseguire il colpo.

Il bandito Derudas si lasciò convincere dal danaro e dalle tenerezze della bella mugnaia; e un bel giorno, con una buona fucilata, le tolse dal fianco l’importuno marito.

Quando appresi il fatto, rimproverai acerbamente il mio compagno:

– Che cosa hai fatto? Perché uccidere l’uomo che ci dava a mangiare e ci offriva asilo nei giorni del pericolo? Sei un tristo e un miserabile!

Il Derudas si strinse nelle spalle e mi disse:

– Oh, sta a vedere che un bandito dovrà lasciarsi vincere da uno scrupolo!

Avvenne intanto che il mio compagno erasi pazzamente innamorato di Maria Grazia, la bellissima vedovella di un altro mugnaio, il quale conduceva il molino di San Lorenzo, nei dintorni di Florinas, da me pure frequentato. Antonio Maria Derudas fece di tutto per celarmi la sua fiamma; ma non tardai ad accorgermi che sospettava di una segreta relazione fra me e la vedova.

Io rideva delle sue smanie gelose, poiché sapevo che la vedovella, una bellissima donna, era realmente innamorata di un terzo: di un giovane, col quale erano passati accordi di matrimonio.

Il giovane innamorato erasi con me aperto, svelandomi che le relazioni colla vedova erano di natura molto intima. Egli chiedeva un mio consiglio.

Io, che sapevo scaltra la vedova, poiché nelle assenze del giovane cercava di tirare a sé anche il Derudas, gli dissi:

– Apri gli occhi, fratello! Tu devi fidare nella mia sola amicizia. Quando ti avviserò di non andare più da lei, ubbidiscimi!

E il giovane, infatti, aveva cominciato a rendere più rare le visite al molino, dopoché si era accorto che la vedovella aveva un cuore sì largo, da poter dare ricovero ai due… ed anche a tre!

Nondimeno la scaltra mugnaia, accompagnata dal suo giovane amante, un bel giorno fece una gita a Sassari, insieme ad altro mugnaio colla rispettiva moglie. Le due coppie presero alloggio in un’osteria, ordinando una camera separata, per ciascuna.

Questo fatto fece mormorare i maligni, e specialmente i coniugi mugnai, ch’erano stati testimoni della scandalosa intimità dei due compagni di viaggio. Tornata la vedovella al molino, non tardò a notare la freddezza del giovane e la corte più assidua che le andava facendo Derudas, ignaro del fatto dell’osteria. Temendo che il mugnaio e sua moglie, colle chiacchiere, riuscissero a far aprire gli occhi a Derudas sull’episodio di Sassari, la vedovella si strinse vieppiù a quest’ultimo, esortandolo ad uccidere i due testimoni pericolosi, non so per quali torti, che diceva aver

ricevuto.

Il Derudas un bel giorno venne a confidarmi le apprensioni della vedova, la quale gli consigliava ad uccidere il mugnaio e la moglie, perché ci facevano la spia.

Io, che tutto sapevo dal giovane amante, gli risposi infastidito:

– Ma non ti accorgi dunque che sei menato per il naso? Da qualche tempo a questa parte mi vai contando frottole, che mi rivelano la tua poca lealtà. Fammi toccare con mano che i coniugi mugnai ci fanno la spia, e mi prenderò io l’incarico di spararli, poiché nel tiro sono di te più esperto. Cessa, però, dallo spacciarmi tante fandonie. Apri gli occhi da una buona volta, ed ascoltami! Il giorno che tu torcerai un capello a quel buon uomo, od a sua moglie, avrai da farla con me! I capricci e gli

amori ti costeranno ben cari!


Le Petit Journal


Il Derudas si offese, e mi tenne il broncio; ed io mi accorsi che cercava vendicarsi. Legato alla vedova da relazione amorosa, si erano entrambi proposti di farmi arrestare, colla speranza di

conseguire la loro felicità. La causa del Derudas era meno grave della mia, ed egli sperava di ottenere dal Governo l’impunità, a prezzo della mia cattura o della mia morte, ottenute col mezzo

di una delazione o di un tradimento.

Era questo il sogno di Maria Grazia, che voleva disfarsi di me, per unirsi in matrimonio con un bandito graziato. Il giovane si era stancato di lei, ed ella non voleva perdere il secondo partito.

Ricordando le mie minaccie, e temendo il mio furore, il Derudas tornò a parlarmi della convenienza di uccidere i due mugnai, che ci facevano la spia. La vedovella pareva preoccupata di quel certo caso dell’osteria di Sassari, che poteva mandare a monte il suo matrimonio.

Ero sul punto di tutto svelare al mio compagno, ma mi contenni. Mi limitai a rispondergli con malagrazia:

– Di nuovo colle supposte spie? Decisamente le donne t’empiono la testa di vento. Te l’ho pur detto di non più parlarmene!

E così dicendo mi alzai con stizza, come per uscire dalla capanna, in cui entrambi si era.

– Dove vai? – mi chiese Derudas con tono risentito.

Mi voltai, squadrandolo con disprezzo:

– Vado dove mi pare e piace! D’ora innanzi, se ti è cara la mia compagnia, dovrai venirmi dietro come un cane. Io non ti comunicherò più le mie intenzioni!

– Allora sarà meglio che ciascuno faccia la sua strada! – mi disse con aria brusca.

– È precisamente quello che desidero! – risposi secco. – Ti predico, però, che dentro l’anno cadrai nelle mani della giustizia… e ti arresteranno addormentato. Io conosco quanto vali!

Così dicendo piantai il mio compagno; e da quel giorno ci guardammo in cagnesco. Io voleva solamente accertarmi del suo proposito di farmi la spia, di concerto colla scaltra vedovella. Una volta avute in mani le prove della loro perfidia avrei io pensato al modo di fargli pagar caro il tradimento.»

«Da poco tempo ero separato dal Derudas, quando egli uccise il bandito che aveva scelto a suo nuovo compagno. Dirò brevemente il fatto.

Un ricco possidente d’Ossi si era bisticciato vivamente con un suo servo, certo Antonio Elias; e s’inasprì talmente che lo percosse. Il servo, più robusto di lui, si avventò al suo padrone, e dopo averlo picchiato si salvò colla fuga.

Il ricco proprietario, volendo vendicarsi dell’atroce insulto, mi chiese un abboccamento in campagna. Egli mi propose una larga ricompensa, se avessi tolto dal mondo quel servo prepotente ed ingrato. Gli risposi che si fosse ad altri rivolto, poiché io non solevo uccidere chi non mi aveva offeso.

Appresi in seguito che il padrone si era rivolto a Derudas, proponendogli la stessa uccisione. Il Derudas osservò che non osava fare il colpo, perché temeva la mia collera e la mia vendetta.

Allora il proprietario di Ossi, coll’intento d’incoraggiarlo, gli fece credere avergli anch’io promesso di sbarazzarlo dal servo audace.

– Pensaci, dunque, se vuoi guadagnare ottanta scudi!

Anche questo colloquio era venuto a mia conoscenza, per la relazione di confidenti, che a me non mancavano.

Avevo intanto saputo che il bandito Elias, il servo prepotente, si era dato a scorrazzare la campagna insieme al Derudas, che se lo aveva associato come compagno di ribalderie.

Un giorno Derudas osò venirmi incontro. Avendolo poco prima veduto con Elias, gli dissi seccamente:

– E perché ti presenti solo? Non è forse degno il tuo compagno d’essermi presentato? Chiamalo pure, se lo hai nascosto!

Derudas si accostò al ciglione, e lo chiamò con un lungo fischio. Quando comparve l’altro bandito, lo apostrofai:

– Perché ti accompagni con Derudas? Non hai capito ancora che egli fu pagato per ucciderti? Abbandonalo, se ti è cara la vita!

Il Derudas mi fulminò con un’occhiata, ma tacque. Senz’altro dire, fece un brusco cenno al compagno, e si allontanarono.

Ero sul punto di fargli fuoco addosso, ma poi mi contenni.


Disegno di Achille Beltrame


Due o tre volte era venuto a tiro del mio fucile, ma sempre lo risparmiai, non volendo si dicesse che io uccidevo i miei compagni. Uccidere il proprio compagno è per i banditi la più grande delle vergogne e delle vigliaccherie; poiché darebbe a sospettare che l’uccisione sia seguita nel sonno. Aspettai un’occasione più propizia. Volevo d’altronde accertarmi che insieme all’amica mugnaia egli mi facesse realmente la spia.

Non trascorse una settimana da quel nostro incontro, quando Derudas uccise il giovane Elias, per la cui morte gli vennero sborsati ottanta scudi dal ricco proprietario d’Ossi. Questa somma gli abbisognava per la liberazione. In noi banditi era radicata la credenza che la giustizia avesse bisogno di soldi per chiudere gli occhi ed alleggerire la mano, e la giustizia d’allora non era quella d’oggi! I giudici erano anch’essi complicati nei partiti, e ciascuno aveva i suoi bravi protetti e protettori, specialmente a Sassari.

Verso quel tempo Derudas aveva tentato di separarsi dalla vedovella; ma questa gli disse:

– Bada, Antonio Maria, a quello che fai! Ricordati che per te ho licenziato un giovane che mi voleva bene. Se persisti ad abbandonarmi perché stanco di me, ti prevengo che mi raccomanderò a Giovanni Tolu per aggiustare la faccenda!

Questa minaccia sortì il suo effetto, poiché Derudas aveva paura di me. Egli finì per sposare la vedovella in casa del rettore, a Banari.

La teneva in un molino, dove andava a trovarla di tanto in tanto, dandole appuntamenti in questo o in quel punto, come usano tutti i banditi ammogliati, che non possono avere una casa coniugale.

Non corse lungo tempo che Derudas venne arrestato, avverandosi la mia profezia. I carabinieri lo avevano colto mentre dormiva. L’imbecille si era svegliato in carcere!

La mancanza di prove testimoniali favoriva la causa di Derudas. I processi erano per la maggior parte indiziari; e correva la voce della probabile assoluzione del bandito mio compagno. Si

accennava da taluni a persone influenti, a qualche giudice a cui si erano dati gli 80 scudi di Elias per diventare più giusto. Non mancò chi mi pose in avvertenza, dicendomi che la bella mugnaia era intesa col detenuto marito per ottenere l’assolutoria, facilitandola colla mia cattura.

Quest’ultima diceria – che correva da qualche tempo – mi aveva messo i brividi addosso. Sentivo di essere feroce. Ero pentito di non aver ucciso Derudas; maledicevo gli scrupoli e i riguardi ridicoli, che avevano trattenuto il mio braccio.

Quale umiliazione per me, se si fosse avverato il pronostico!

Io in carcere, e Derudas in libertà? Questo pensiero mi torturava.

Avevo bisogno di convincermi che realmente Maria Grazia mi tendesse un’insidia. Non volevo prestar fede ai molti che mi assicuravano che fra il detenuto e la moglie (annuente la polizia) correvano segreti rapporti.

Vivevo irrequieto; le mie notti erano turbate da sogni angosciosi. Avrei voluto travestirmi da guardia carceraria per uccidere il mio perfido compagno nella sua cella di San Leonardo.

S’ei fosse uscito dal carcere prima della mia cattura, sarei stato più contento, poiché avrei potuto ucciderlo al fianco della propria moglie; ma chi mi assicurava che la sua libertà non era

subordinata alla mia perdizione?

In preda a questi tormenti non pensai che a procurarmi le prove del tradimento a mio danno.


Le Petit Parisien


Aggirandomi un giorno nelle vicinanze del molino della moglie di Derudas, mi cacciai nel vicino bosco, dove vidi la sua bella servetta, che andava in traccia d’un maiale sbandato. Siccome in altri tempi le avevo fatto un po’ di corte, me le avvicinai sorridendo:

– Buon giorno, Catterina. Come stai?

– Oh! Beato chi ti vede! È un bel pezzo che non vieni a trovarci nel nostro molino!

– Dacché hanno arrestato il tuo padrone ho sospeso le visite al molino per non dar pasto alla maldicenza.

– Che scrupoli! E perciò hai avuto paura di rivedermi? Ben gentile!

– Riparerò al mio torto fra breve. Verrò a salutare Maria Grazia… e te più di lei.

– Possibile! E quando? La mia padrona sarà tanto contenta di rivederti. Mi parla sempre di te.

  • Verrò… fra due giorni; venerdì, o sabato… dopo l’imbrunire.

– Davvero?

– Bada di non dirlo a nessuno, Catterina! Addio, belloccia!…

– Tieni le mani a posto!

– Sei proprio adirata con me?

– Te lo dirò quando verrai al molino.

E la servetta si allontanò, saltellando come una capriola.

Né il venerdì, né il sabato mi mossi per andare al molino; ma la sera stessa pregai un mio parente, perché si appiattasse per tre giorni in un punto lontano, per sapermi riferire le persone che

sarebbero andate a far visita alla mugnaia.

– È questione forse di gelosia?

– No: è un mio capriccio. Bada di non farti vedere!

La domenica mattina il mio congiunto tornò a me. Era alquanto turbato.

– Ebbene? – gli chiesi. – Hai scoperto il misterioso visitatore?

– Altro che visitatore! Venerdì sull’imbrunire mi sono imbattuto in sei carabinieri sulla strada di Codrongianus. Erano diretti al molino, e li ho visti sparire nel vicino boschetto. Certo si trattava di un appiattamento, perché vi sono rimasti due notti. Erano guidati dal maresciallo, il quale entrò due volte nel molino, dopo le dieci.

La trama era scoperta, ed io non potevo più dubitare della perfidia di Maria Grazia, che cercava di vendere la mia pelle per salvare quella di suo marito.

Dovevo dunque pensare alla vendetta: punire il marito dentro il carcere, e strapparlo per sempre alla moglie; e tutto ciò senza far uso del mio fucile.

Il tempo stringeva. Il dibattimento di Derudas era incominciato, ed ogni ritardo poteva pregiudicare il mio disegno.

Mi ricordai della confidenza fattami un anno addietro da Derudas, dinanzi alla cantoniera di Campomela.

Senza frapporre indugio mi recai al villaggio di Mores, per abboccarmi con Antonio Masala di Cargeghe. Era costui il fratello di Angelo, dell’uomo assassinato da Derudas e da Puzzone

per incarico e col concorso di Manconi.

Trovato il Masala gli dissi:

– È una vergogna, o Antonio! Com’è ch’hai fatto sì poco conto di tuo fratello assassinato?

– E che doveva io fare, quando mi sono ignoti gli uccisori? O

per dir meglio, quando mi mancano le prove?

– Le prove si trovano sempre, quando si cercano!

– Così fosse! Che cosa mi consigli di fare?

– Fidarti di me. Hai tu avvocato a Sassari?

– Sì. Il dibattimento credo sia già incominciato.

– Chi è il tuo avvocato?

– Cossu, il grande.

– Ebbene, bisogna scrivere al tuo avvocato.

– Scrivere che cosa?

– Presso a poco nei termini che io ti suggerirò.

– Sentiamo.

Ed io dettai, accentuando le parole:

“Illustrissimo Signor avvocato, Le do alcuni ragguagli che Ella si affretterà a comunicare al procuratore del re. I testimoni Ignazio Tolu e Giovanni Manconi, già esaminati dal giudice istruttore subito dopo l’assassinio di Angelo Masala, tacquero quanto sapevano perché i banditi Derudas e Puzzone battevano allora la campagna, e li avrebbero uccisi se avessero deposto il vero. Ora però che l’uno è morto, e l’altro è in carcere, essi possono parlare. Oso sperare che l’eccellentissimo Tribunale vorrà perdonare ai due disgraziati testimoni, i quali deposero il falso, solamente per timore di perdere la vita. Angelo Masala disparve, né si ebbero le prove della sua morte per malefizio. Il suo cadavere fu sotterrato dagli assassini nel tenimento di Don Battista Solinas nel sito sa funtana de sa piarosa, in faccia alla cantoniera di Campomela. Si mandi a dissotterrare il cadavere, seguendo le traccia che a calce della presente verranno indicate”. (E qui diedi i più minuti schiarimenti sulla località da me conosciuta).

Questa lettera fu distesa e mandata all’avvocato Cossu.

Il dibattimento, che era in corso, venne sospeso e rinviato.

Si esumò il cadavere; si fece la perizia; furono uditi i testimoni indicati, e il risultato del nuovo giudizio fu la condanna di Antonio Maria Derudas ai lavori forzati a vita. Egli morì in galera dopo quattro anni di pena.»


Disegno di Achille Beltrame

Negli atti del Parlamento Subalpino per quanto riguarda i dibattimenti rimandati dalla classe di Sassari negli anni 1856-1857, troviamo il dibattimento di Ruda Antonio Maria per il reato di assassinio, rimandato per essere, prima di aprirsi il dibattimento, risultato avere altro processo in corso. Tale dibattimento aveva ben 11 testimoni iscritti.

sabato 31 agosto 2024

Santa Maria 'e Contra: Origine, vicende e aneddoti su una delle più piccole chiese romaniche della Sardegna

 


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Silenziosa sentinella del passato, suggestivo testimone del presente, Santa Maria ʼe Contra compie 900 anni di storia. Annoverata fra le più antiche e piccole chiese romaniche in Sardegna, oliveti e frutteti le fanno da cornice nell'agro di Cargeghe, in perfetta armonia con lo spazio che la accoglie. 

Sovente citata nei registri e fogli sparsi dell'Archivio Parrocchiale, la chiesa, periferica rispetto all'abitato che la ospita, riveste nei secoli un ruolo tutt'altro che marginale contribuendo a tessere le maglie di una storia - non solo - locale filtrata dai setacci della memoria scritta e orale.







venerdì 14 giugno 2024

I fasti della peste barocca. Il caso Cargeghe in Sardegna nel 1652. The glories of the baroque plague. The Cargeghe case in Sardinia in 1652 (English version)

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I FASTI DELLA PESTE BAROCCA. IL CASO CARGEGHE IN SARDEGNA NEL 1652, AMAZON KDP, 2024



L'opera attraverso lo studio dei Quinque Libri, analizza dal punto di vista statistico il tragico evento della "peste barocca" che tra i mesi di luglio e settembre 1652 decimò la popolazione di Cargeghe, piccolo borgo della Sardegna settentrionale. Nell'arco di soli due mesi, su una popolazione approssimativamente stimata intorno alle 400 unità, furono circa 328 gli abitanti a perire nelle più inumane sofferenze. Tuttavia il villaggio non si estinse completamente e, seppur profondamente segnato, sopravvisse nel suo tessuto sociale negli anni a seguire.


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The work, through the study of Quinque Liber, statistically analyses the tragedy of the "baroque plague" that ravaged Cargeghe’s population between the end of July and September 1652.
In Cargeghe, a small village in northern Sardinia, it is estimated that 328 individuals, out of a population of 400 individuals, perished with unbearable sufferings in just two dark months. However, the village did not become completely extinct. Although deeply scarred, it survived in itssocial composition in the years that followed.







Sotto processo. Cronaca di un mancato uxoricidio

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 Sotto processo. Cronaca di un mancato uxoricidio, Amazon KDP, 2024




Il volume raccoglie parte di alcune cronache giornalistiche dei primi del 1900 liberamente rielaborate dall'autore e inerenti un processo per mancato uxoricidio svoltosi presso la Corte d'Assise di Sassari in Sardegna. All'epoca ebbe ampissima eco, anche tra la stampa del “continente” poiché non era di certo usuale che una donna, moglie e madre, attentasse alla vita del coniuge con ben 12 colpi di revolver calibro 6.
Il processo a Maria Arras contro il coniuge Angelo Chirra, la cui vicenda ebbe come tragico palcoscenico l'appartato borgo di Cargeghe dove i coniugi dimoravano, si dipana attraverso le deposizioni dei vari testimoni, in gran parte abitanti del paese divisi in fazioni politiche i quali mettono in piazza fatti e misfatti, seri ma più spesso semiseri, del piccolo centro alle porte del capoluogo. Emerge così lo spaccato di una Sardegna inedita di inizio XX secolo, un’originale quadro di vita sociale sovente lontano dai soliti cliché e stereotipi legati all’isola tra ottocento e novecento.
Un'epoca nella quale il tessuto sociale dell'isola, ancorato ad arcaici schemi familiari patriarcali con ruoli ben definiti, iniziava probabilmente a percepire gli influssi dei movimenti di emancipazione femminile già in atto nel resto dell'Europa.
Il ruolo della donna all'interno della famiglia e nella società andava mutando da statico “oggetto procreativo” a soggetto fondante in pari grado con il coniuge e portatore di diritti da tutelare.












mercoledì 13 dicembre 2023

Storie di Cargeghesi

 

a cura di Giuseppe Ruiu



Tempo fa venni a conoscenza circa l'esistenza di un cargeghese trapiantato a Roma fin da giovane età, grazie a una sua discendente: Rosanna Castangia, la quale mi raccontò le vicende del suo prozio il dentista Michele Pòddine. 

Nato a Cargeghe nel 1868 dal sassarese Antonio Pòddine e dalla cargeghese Baingia Merella, i quali ebbero anche altri quattro figli maschi: Francesco, Antonio, Leonardo e Simone. Famiglia di impiegati pubblici che si estinse dal paese entro la metà del XX secolo.

Il giovane Michele Pòddine, sotto l'ala protettrice del padrino di battesimo l'avv. don Michele Corda Solinas di Borutta (ma di madre cargeghese), ebbe la possibilità di effettuare tutti gli studi in Roma fino al conseguimento della Laurea in Medicina.


Fotografia del dott. Michele Pòddine 
(per gentile concessione di Rosanna Castangia)


Risiedette in via Nazionale n. 100 svolgendo la professione di dentista sempre a Roma in via Tre Cannelle n. 24 e in via Nazionale n. 54 dove ebbe un “gabinetto dentistico”, avendo tra i suoi più illustri pazienti, secondo i ricordi di famiglia, il vate Gabriele D'Annunzio con il quale strinse un rapporto di reciproca stima.


Pubblicità che reclamizza l'attività dentistica del dott. Pòddine 
sul quotidiano "La Nuova Sardegna" dell'aprile 1913


Fu inoltre membro fondatore dell'Associazione dei Sardi a Roma, composta da illustri personalità tra le quali la scrittrice Grazia Deledda, il professor Ettore Pais, Il senatore Giampietro Cocco-Ortu, il deputato Ottone Baccaredda ed altri... A tutti gli effetti il primo circolo dei Sardi costituitosi fuori dall'isola. Proprio con la scrittrice premio Nobel Grazia Deledda, sempre secondo la tradizione di famiglia, strinse anche con essa un duraturo rapporto di amicizia.



Convolò a nozze nella capitale nel maggio del 1913 con la cantante lirica Giulia Caterina Sbaragli. La coppia ebbe un unico figlio: Giorgio Pòddine (Roma, 22/12/1913) che in seguito intraprese anch'esso gli studi universitari in Medicina divenendo un brillante pediatra presso l'ospedale Bambin Gesù. Egli a Roma, negli anni Settanta, faceva parte del Centro Nascita Montessori (CNM), poi primario al Policlinico dell'Università romana. Ebbe due figlie come uniche eredi.

Nel giugno del 1916 il dott. Michele Pòddine venne nominato dal re Vittorio Emanuele III, cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia. Presiedette inoltre la Società Regionale di Mutuo Soccorso, fondata nel 1890, di piemontesi, liguri e sardi residenti a Roma.



Nel corso della sua esistenza non mancarono i contatti col paese natio e la Sardegna dove risiedevano fratelli e nipoti. Si spense a Roma nell'ottobre del 1964 a ben 94 anni di età.

Portare a conoscenza le vicende dei cargeghesi che si sono distinti nel corso della propria esistenza e che la memoria collettiva ha ormai pressoché rimosso è uno degli obiettivi di questo blog.

domenica 10 dicembre 2023

L'amore impossibile di Peppino Mereu

 

a cura di Giuseppe Ruiu


Il poeta e la ragazza

Tratto da: R. Manconi,“Vecchia Florinas”, Tipografia Stella Alpina, Novara, 1960, pp 111-116.


E adesso rievochiamo qui una storia che da sola basterà a illustrarci certi aspetti del costume e del carattere della nostra vecchia gente.

Giovanni Dore, nativo di Cargeghe, aveva trasportato da giovane i suoi penati in Florinas, menandovi per moglie una delle più belle e virtuose ragazze, Giovanna Maria Fois, in tutto degna d'elogio che i romani facevano alle loro migliori donne: domi mansit, lanam fecit.

Infatti il fuso e la rocca furono i suoi compagni inseparabili fino alla tarda età, fatta di giorni pieni di ricordi e di silenzi.

Agricoltore e soprattutto mugnaio, Giovanni Dore aveva qualcosa di suo al sole e conduceva due mulini ad acqua: uno in Briai (regione di Ossi - ndc) e l'altro in s'Iscia (regione di Cargeghe - ndc).

I vecchi mulini di Florinas e degli altri nostri paesi! Esercitavano un ruolo fondamentale nell'economia locale e costituivano una nota di colore nel quadro della vita paesana. A essi portavano il grano asinelli che sparivano sotto il carico dei sacchi o cavalle che poi rimanevano in attesa, scalciando per difendersi da mosche e da tafani.

L'acqua gorgogliava nelle gore e scosciava sulle pale delle ruote, e dopo il polverone e l'arsura del cammino sembrava più fresca, più preziosa proprio come un magnifico dono di Dio. Il gemere delle mole e lo stridere delle tramogge si univa al cicaleccio delle donne e alle strida dei piccoli, interpuntati ogni tanto dal suono del campanello che annunciava la fine di una macinata.

I molini costituivano un centro di raccolta e di smistamento di notizie, e perciò fungevano, per così dire, da agenzie locali d'informazione. Infatti costituivano il luogo ideale dove ogni comare che aveva da dire la sua circa fatti che la riguardavano da presso o da lontano poteva improvvisare qualcosa di simile alle moderne conferenze stampa innanzi alle compaesane pronte a fungere nel paese da gazzette parlanti.

Poi, con l'arrivo dell'energia elettrica, addio vecchi mulini ad acqua!

Addio ruote verdi di muschio! E addio quadretti di vita paesana sotto il pulviscolo bianco che si levava dalle macine a incipriare ogni cosa.

Adesso qualcuno di quei mulini, solitario e diroccato, , dalle finestre senza impannate sembra guardare con desolata fissità al passato.

Ma torniamo a Giovanni Dore. Il suo matrimonio con Giovanni Maria Fois era stato allietato da cinque figlie: Lucia, Maria Domenica, Giovanna Maria, Maria Simona, e Franceschina, che gli crescevano in casa come virgulti intorno alla quercia, per usare una similitudine biblica, e di cui si sarebbe potuto dire che erano cinque in una, tale era in esse la fusione dei cuori e delle menti. Dacché mondo è mondo, cinque figlie hanno sempre costituito un problema, e spesso un grattacapo, per qualsiasi padre; ma questo non era il caso di Giovanni Dore, che tra l'altro, in fatto di pedagogia, doveva avere poche idee, ma molto chiare.

Sua figlia Maria Domenica era appunto giunta all'età in cui allora una bella ragazza incominciava a dar da fare ai giovanotti con le serenate sotto il balcone, quando in Florinas comparì per ragioni di servizio Giuseppe Mereu, un giovane destinato ad accrescere il patrimonio isolano della poesia dialettale.

Giuseppe Mereu era nato in Tonara nel 1872, vi aveva frequentato le scuole elementari e, rimasto orfano e privo di mezzi, si era arruolato nell'Arma dei carabinieri, seguendo l'esempio di tanti altri giovani sardi che per sottrarsi alla vita dei campi non avevano (e non hanno tutt'oggi) altra scelta se non quella di mangiare «su pane de su Re». Così egli era venuto a capitare in servizio alla stazione dei carabinieri in Codrongianos (che sovrintendeva oltre al territorio di Codrongianos anche quelli di Florinas e Cargeghe - ndc). Come poeta dialettale egli era destinato a un bel successo e le sue poesie vengono stampate e diffuse tuttora anche a opera di venditori ambulanti perfino nelle fiere e mercati dell'isola.

All'allievo delle muse sarde sotto la lucerna del carabiniere non fu molto difficile attirare l'attenzione della ragazza e farle capire che il Cupido delle sue poesie aveva per lui dato fondo a tutti i dardi della faretra.

Giuseppe Mereu era tutt'altro che male come uomo, e come in tutti i poeti degni di rispetto, anche in lui traspariva quel non so ché di malinconico, quella spiritualità interiore che è il segno e il suggello di un dono negato agli altri, inoltre era un carabiniere; e qui occorre spiegarsi.

Erano quelli i tempi in cui quando una pattuglia di carabinieri, nelle sue perlustrazioni o nei giri di ronda, andava a bussare a un uscio, alla domanda fatta dall'interno: «Chi est?» si rispondeva: «Su Re!». Al che si replicava: «Bene 'ennidu su Re!». Ma nella psicologia dei nostri vecchi non tutto correva liscio riguardo all'Arma. Essa rappresentava il Re, al quale andava l'indefettibile ossequio dei sudditi, ma rappresentava anche la legge: una legge che spesso, al vaglio degli interessi personali, assumeva l'evidente configurazione dell'ingiustizia.

Quindi ossequio al Re, ma alla larga dai rappresentanti della Legge!

Questo per gli uomini. Per le donne invece era un'altra faccenda, dato che nel passato esse avevano sempre un debole per tutte le uniformi, procedendo in parallelo la loro scala sociale e l'ordine della gerarchia militare. Allora un carabiniere a cavallo, con tanto di sciabola e di pennacchio e di cordelline, si portava via i cuori di tutte le ragazze di un paese.

Bell'uomo, e poeta in uniforme, Giuseppe Mereu aveva quindi numeri più che sufficienti per far breccia nel cuore della ragazza. Incominciò così tra lui e lei una «corrispondenza d'amorosi sensi» che, dati i costumi del tempo, non andava al di là delle occhiate furtive nell'ombra della chiesa o dal balcone. Quando poi, grazie all'assenza di occhi indiscreti, ci scappava anche qualche sorriso o qualche rapido cenno, allora era giornata di festa, di quelle da far scoppiare il cuore dalla gioia.

I due innamorati non avevano perplessità circa i propri sentimenti e le loro volontà; ma sentivano di navigare in un mare di dubbi quando pensavano rispettivamente al proprio padre e al futuro suocero. Come l'avrebbe presa egli? E se avesse detto recisamente: no? Che guai allora! In casa ogni suo parere era un ordine tacito, e in famiglia la sua volontà era legge. I guai purtroppo non tardarono, dato che tosse e amore non possono nascondersi a lungo, e incominciarono col fatto che Giovanni Dore avesse istintivamente in antipatia i rappresentanti della Benemerita e che un genero carabiniere, anche se poeta, non rientrava affatto nei suoi ideali. Non dimentichiamo che, in quel tempo, i carabinieri condividevano con i marinai la fama di essere specialisti nell'arte di corteggiare le ragazze, collezionando fidanzate ovunque. Forse dovettero influire anche le sue considerazioni sull'autorità paterna, sull'obbedienza e la confidenza filiale, eccetera, a farlo andare sulle furie appena, messo sull'avviso, ebbe dalla figlia la sincera confessione dell'avvio preso dalla faccenda.

Nella casa di Giovanni Dore scoppiò una tempesta che investì tutte le donne, le quali attesero in silenzio che tuoni e fulmini dileguassero.

Come Dio volle, la tempesta si acquietò, ma in un silenzio che non presagiva niente di buono. Infatti, di lì a poco, la colpevole fu chiamata a sentire la punizione che le aveva inflitta: la segregazione a tempo indeterminato nel mulino di Briai, sotto la sorveglianza di una zia.

Seduta stante il padre montò a cavallo e s'avviò verso Briai, seguito dalla figlia che camminava a piedi, scalza per maggior punizione. I lettori non avranno difficoltà a immaginare quella scena e che cosa passasse quel giorno nel cuore di quella figlia così sottomessa.

Il poeta carabiniere precipitò in una autentica disperazione, e per la sua bella segregata chiese soccorso a Dio e per se a tutte le Muse, questa volta chiamate da lui a piangere sinceramente sulle sventure d'amore e assai più del consueto. Ma per lui era impossibile vivere senza nemmeno vedere i luoghi dove la sua bella era stata confinata, seguendo un costume che ricordava quello descritto in certe novelle medioevali, in cui inflessibili genitori chiudevano in castelli o torri le figlie di cui volevano impedire i non graditi amori. Per ciò, quando era libero dal servizio, egli usciva dalla caserma e poi via, per costoni e scorciatoie impossibili, fino a una cima da dove si vedeva il mulino fatale. Là, su quella cima, l'innamorato sostava quasi in contemplazione, in compagnia delle muse, e pur nella sua pena giungeva quasi a sentirsi felice. Di capitare ogni tanto al mulino, magari col plausibile pretesto del servizio e in compagnia di un commilitone, non c'era neppure da pensarlo per non aggravare di più la situazione.

Però quelle passeggiate diurne non bastavano a soddisfare il cuore del giovane, così ch'egli prese a farne anche delle notturne, sempre per raggiungere quella tal cima da dove magari veder trasparire dal mulino qualche luce che gli desse come una visione dell'amata. Quelle passeggiate, considerando il loro percorso, costituivano già una bella impresa di giorno; immaginiamoci poi di notte, se per giunta non vi era chiaro di luna. E non si dimentichi il rischio di una punizione esemplare da parte dei superiori per l'infrazione fatta ai regolamenti.

Purtroppo il destino aveva deciso di servirsi dell'amore per giungere ad abbreviare gli anni di Giuseppe Mereu. In una notte piena dell'oscurità più densa, egli, nel guadare un torrente alla volta di quella cima, accaldato com'era scivolò e cadde nell'acqua infradiciandosi fino al midollo. Quel bagno involontario fu per lui la causa di una ostinata infreddatura dalla quale poi, per trascuratezza del giovane e per imperizia dei medici, doveva originarsi una tisi inguaribile.

Intanto il parentado della ragazza, coalizzatosi in difesa dei due innamorati, riuscì a spuntarla e a far recedere Giovanni Dore dalle sue decisioni. Egli chiamò allora un suo servo pastore e gli ordinò di recarsi a Briai per dire alla figlia di tornare a casa, essendo stata perdonata. Il resto si sarebbe deciso in seguito. Il servo recò l'imbasciata ma con suo stupore si sentì domandare: «Che segno certo ho io che veramente è volontà di mio padre che io faccia ritorno a casa?»

Il servo ritornò indietro, forse facendo in cuor suo chissà che commenti, e riferì.

«Bene!» - disse allora Giovanni Dore, togliendosi di tasca il grande orologio d'argento di cui andava particolarmente fiero – Prendi questo, e dì a mia figlia che venga a riportarmelo». E così fu fatto.

Se la prima parte di questa storia è molto romantica, la seconda invece è molto malinconica.

Tutti consenzienti, i due giovani si scambiarono in forma non ufficiale la promessa di matrimonio; ma la tisi aveva preso a fare rapidi progressi nel giovane, che passò in cura nell'infermeria presidiaria di Sassari e nell'ospedale militare di Cagliari e infine venne dimesso dall'Arma.

Con ciò finirono anche i sogni e le speranze dei due innamorati. Lui sciolse lei da ogni impegno e si ritirò nella nativa Tonara ad attendervi la fine. Della corrispondenza intercorsa tra i due si conservano ancora fino a qualche anno fa alcune lettere e diverse liriche amorose, scritte in italiano o in dialetto, e rimaste inedite.

Lui si avviò al compimento del suo destino col travaglio spirituale che traspare dalla raccolta delle sue liriche, pubblicate nel 1897 a cura di un caro amico, e morì nel 1901. Lei, chiusa nel rimpianto, dopo aver respinto per dieci anni ogni altra richiesta di matrimonio, aderendo alle pressioni dei parenti passò alla fine a nozze, ma era stabilito che anche per lei la vita doveva essere breve. Morì infatti il giovedì santo del 1918 in Florinas, dove dalla città in cui era andata ad abitare era rientrata per venire assistita nel male inesorabile che l'aveva colpita, e volle essere sepolta vestita del costume con cui era andata sposa all'altare. Forse, il giorno dopo le sue esequie, le campane di Florinas e di Tonara presero a squillare insieme nell'alleluia pasquale.



Biografia di Peppino Mereu da: «Ichnussa. Progetto di pubblicazione e divulgazione libera della grande poesia in lingua sarda».


La medesima vicenda descritta nel presente lavoro, tratta sempre da: «Ichnussa. Progetto di pubblicazione e divulgazione libera della grande poesia in lingua sarda».

La bella di Florinas fu l’unica donna amata dal poeta

A Tonara, fino a domani, la tre giorni dedicata al poeta Peppino Mereu: Domenica, poesia per l’amore perduto.

Si pro casu unu paccu sigilladu agatades, domando, pro favore, non siat su sigillu profanadu./Cuntenet un’istoria de dolore: sunu litteras d’un’isfortunada, dulche poema d’unu veru amore./(…)/De cuss’amore nde tenzo sa morte, a’ s’ora de sa vida sa pius bella. Ah! Decretu fatale e dura sorte!/ Tue, in battor muros de una cella, ses pianghende e preghende in segretu, pover’isconsolada verginella!

Florinas. Maria Domenica Dore aveva trentatré anni e nessuna luce negli occhi il giorno in cui si rassegnò a sposare un uomo che non amava. Per due lustri, dopo la fine del suo grande amore, aveva vissuto reclusa in casa, come una monaca: mai più una festa, mai più un’uscita in campagna con le sorelle, mai neanche l’accenno di un sorriso. Leggeva e rileggeva le lettere che conservava in un cassetto, accarezzava i fiori di campo essiccati che lui - in quei pochi mesi di gioia che Dio concesse al loro sentimento - le aveva spedito in mezzo ai foglietti delle poesie, pregava senza più speranza. Un giorno d’inverno del 1909 sposò Antonio Michele Manconi, brav’uomo del paese con uno stipendio di guardia carceraria e una vita sacrificata da una città all’altra. Solo il primo figlio, Lorenzo, nacque a Florinas, gli altri due - Giovannico e Mariuccia - a Cagliari e a Oristano. Ebbe un poco di gioia soltanto dai suoi bambini, e quando morì - a quarantadue anni, il Giovedì santo del 1918 - le zie consolarono gli orfani, i compaesani fecero le condoglianze al vedovo e tutti dissero che Maria Domenica Dore, in fondo, era già morta il giorno in cui lei e Peppino Mereu avevano rotto la promessa di matrimonio.

«Era un bel giovane. Alto, slanciato, portava con eleganza la divisa dei carabinieri a cavallo. Fin da bambina, qui in casa, ho sempre sentito parlare di Peppino Mereu e di zia Domenica. Per anni, in famiglia, abbiamo conservato le lettere che lui le scriveva. Le custodiva zia Gavina Luigia Carboni, la sorella di nonno: gliele aveva consegnate zia Domenica prima di sposarsi. “Tienile tu, sono la cosa più cara e preziosa che ho”, disse. Per tanto tempo vennero tenute come reliquie, ma poi purtroppo sono andate perse durante un trasloco». Domenica Carboni ha 86 anni, lo stesso nome della sfortunata zia e gli stessi tratti dolci del viso. Nel soggiorno della casa di Florinas le foto di questa grande famiglia di donne sono incorniciate alle pareti e sui ripiani della credenza. C’è zia Gavina Luigia, la sorella del nonno paterno, che cercò sempre di aiutare i due innamorati di questa storia; c’è Maria Domenica, bella come un’attrice del cinema muto; ci sono le sue quattro sorelle (lei era la secondogenita) Lucia, Giovanna Maria, Maria Simona («che era mia madre») e Franceschina. «Questa è una parte importante della storia della famiglia, ma le lettere, purtroppo, quelle non ci sono più». Già, le lettere. Nell’epica dell’amore sfortunato tra Peppino Mereu e la figlia del mugnaio Giovanni Dore, restano un mistero mai svelato. Perdute chissà come quelle scritte dal poeta; mai ritrovate - invece - quelle che gli spedì l’innamorata, le stesse che Mereu, poco prima di morire, sistemò dentro una scatola assieme al ritratto della mamma e alla fotografia di Maria Domenica, l’unica donna che abbia mai amato.

Giuseppe Mereu aveva appena vent’anni quando, nel 1892, arrivò a Codrongianos per prendere servizio nella caserma dell’Arma. Si era arruolato nei Regi Carabinieri per sfuggire a un destino segnato come servo pastore o massaio appresso al giogo dei buoi, e intanto scriveva le sue liriche sognando di poterle pubblicare. Un giorno, mentre passava a Florinas assieme a un commilitone, incrociò lo sguardo di Maria Domenica Dore e da allora, tra lui e la figlia del ricco mugnaio del paese, nacque un amore fatto di cenni del capo, occhiate furtive, sorrisi discreti. «Zia Fois, la sorella della mamma, sapeva di questo sentimento e cercava di aiutare la nipote. I guai però - racconta Domenica Carboni - cominciarono quando il padre, Giovanni Dore, scoprì tutto. Lui, come tanti a quel tempo, era convinto che i carabinieri fossero uguali ai marinai, pieni di fidanzate in ogni paese. “Senti”, gli diceva zia Fois, “perché non chiedi al maresciallo oppure a qualcuno di Tonara di che famiglia è questo ragazzo?”, ma lui non voleva sentire e, per tutta risposta, decise di allontanare la figlia e rinchiuderla nel mulino di Briai , lontano dal paese, sorvegliata a vista da zia Fois». Peppino Mereu, disperato, cominciò a fare avanti e indietro - a piedi, qualche volta pure di notte - per poter vedere la sua innamorata anche solo un minuto. «Alle volte zia Fois permetteva anche che si scambiassero qualche parola, ma niente di più: quelli erano tempi in cui una ragazza doveva conservarsi casta e pura». Una notte, mentre andava al molino, scivolò nel fiume. «È da allora, dicevano le mie zie, che Peppino Mereu cominciò a stare male». Intanto Giovanni Dore venne a sapere, da alcuni venditori di castagne di Tonara, che quella del giovane carabiniere era una famiglia rispettabile e onorata, «sicché si decise a dare il suo consenso e a far rientrare la figlia a casa. Purtroppo, però, i due innamorati non hanno visto un’ora buona. Peppino Mereu, dopo quella brutta infreddatura nel fiume, si ammalò gravemente di tisi, venne ricoverato nell’ospedale militare di Cagliari e subito congedato dall’Arma». Fu così che, proprio perché malato e senza più la possibilità di mantenere una moglie, decise di sciogliere la promessa di matrimonio. Tornò a Tonara, dove morì nel 1901, mentre Maria Domenica Dore - confinata nella sua casa di Florinas - per anni visse nel ricordo di quell’amore sfortunato. «Per più di dieci anni fece una vita di clausura. “Perché non esci?”, le chiedeva il babbo, e lei rispondeva: “E dove vado, a vedere Peppino?”». Alla fine dovette cedere alle pressioni del padre, «che la voleva vedere sistemata: a quel tempo una donna doveva avere un marito», e sposò Antonio Michele Manconi. Fu una moglie devota, e per i suoi tre bambini una mamma dolcissima. Quando, tanti anni dopo, il primogenito Lorenzo scrisse un libro dedicato al paese, Vecchia Florinas , dedicò un intero capitolo all’amore tra sua madre e il poeta di Tonara. «Mamma - confidò Lorenzo Manconi - mi raccontava sempre di quel sentimento che portava nel cuore. Ero un bambino, ma lei voleva che sapessi. Mi diceva: “Ascolta, figlio mio, ascolta. Questa è stata tutta la mia vita”». PIERA SERUSI


Descrizione del mulino di Briai da: «Mulini di Sardegna a cura di Giuseppe Piras».